La stampa libera lotta quotidianamente contro chi vorrebbe metterla a tacere: è una sfida che affronta sin dalla sua nascita e che è destinata a dover fronteggiare probabilmente in eterno.
La libertà di stampa fa paura a chi ha qualcosa di losco da nascondere, ai governi che vedono in essa un pericolo per il mantenimento del consenso, a chi si sente “minacciato” dalla ricerca della verità e tifa per fake news e ignoranza dilagante.
Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak, Victoria Marinova: sono i nomi dei 3 giornalisti uccisi negli ultimi 12 mesi sul territorio dell’Unione Europea. In totale, dal 1992 a oggi, sono stati 107 i cronisti assassinati in Europa, 33 solo negli ultimi dieci anni. Numeri che segnalano un’“insofferenza” crescente verso chi per mestiere, pur a costo della vita, informa.
Una situazione che riguarda da vicino anche l’Italia, dove la professione è da più parti presa di mira. Secondo gli ultimi dati ufficiali del Ministero dell’Interno (dicembre 2016) sono 19 i cronisti minacciati di morte che necessitano della protezione della scorta. Dieci di loro sono giornalisti investigativi per i quali la mafia e altri gruppi criminali hanno decretato la “condanna a morte”.
Reporter investigativi proprio come lo erano Daphne Caruana Galizia (uccisa il 16 ottobre del 2017 a Malta dopo il clamore suscitato dalle sue inchieste sui collegamenti tra la politica dell’isola e la finanza nera internazionale), il 27enne Jan Kuciak (assassinato a febbraio insieme con la compagna, quando stava indagando sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Slovacchia) e Victoria Marinova, 30 anni (stuprata e soffocata in un parco, dopo la messa in onda di un’inchiesta sull’appropriazione indebita di fondi strutturali dell’UE).
La ricerca della verità come male da sopprimere. Questo il movente che muove la mano di chi vuole mettere a tacere la professione giornalistica. E contro il quale si batte l’organizzazione giornalistica non profit Forbidden stories, impegnata a portare avanti le inchieste interrotte dei giornalisti assassinati o ridotti al silenzio in carcere.
“Ogni Paese ha bisogno di chi lo critichi in modo costruttivo. La medicina che dispensano coloro che esprimono critiche può risultare amara alla maggior parte dei leader, ma sul lungo periodo li fa stare meglio”, lo ha scritto su Repubblica Thomas L. Friedman in merito al caso della morte del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Parole che, però, si adattano senza sforzo a qualunque democrazia, o aspirante tale, degna di questo nome. Perché per essere liberi bisogna essere liberi di informarsi e di informare.
Fonte foto: Noisiamofuturo