A metà strada tra una cultura rassegnata ad essere deposta nei libri di storia e una cornice moderna ma sterile del mondo contemporaneo, troppo evoluta per essere leale con i sentimenti messi a dura prova in una società atea di cuore, l’intera produzione letteraria di Donatella Di Pietrantonio, abruzzese di nascita, verte su una condizione miope delle abilità cognitive di chi non riesce a disfarsi dei calendari scaduti.
“Mia madre è un fiume” (Elliot Editore) è il romanzo d’esordio di Donatella Di Pietrantonio, scrittrice entrata nel gotha della letteratura italiana con il libro “L’arminuta” (la ritornata), la storia di una bambina abbandonata due volte prima di essere reintrodotta nella sua dissennata famiglia d’origine.
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Abruzzo 1942.
Alle pendici del Gran Sasso nasce, cresce e diventa donna Esperia Viola, detta Esperina, nata il venticinque marzo in una casa al confine tra i comuni di Colledara e Tossiccia. Una contadina che ha sempre vissuto in simbiosi con i tanti fili d’erba avvizziti ai comandi del sole, si sa, gli anni modellano una schiena curva sulla terra non sempre prodiga di sostentamento. Tanto aspra è stata la vita con colei stordita dal duro lavoro roditore dei teneri pensieri (il lettore imparerà a conoscere molto di Esperia e quasi niente della figlia avuta quando era appena diciottenne).
Il nodo centrale, se si vuole dare credenza alla lettura di un romanzo in chiave drammatica, si concentra nella malattia neurologica di Esperia, l’Alzheimer, la più crudele delle patologie a servizio di sorella morte. Una vera e propria dichiarazione di guerra espletata ad ampio raggio in ogni anfratto della mente. Dal momento della diagnosi non uno, ma tanti piccoli addii al pensiero, alla parola, ai ricordi, si susseguono in un calvario di questa madre offesa nella malattia, riflesso ingiallito di chi le sta accanto.
“Riprovo poche volte a memoria la voglia di stringermi al suo odore di contadina giovane e sana. Di lei è rimasta l’assenza. Avevo una madre inaccessibile, separata, non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore. La inseguivo sempre, certi giorni con l’andatura dimessa del cane pulcioso che esala disperazione dal muso“.
Il temporale non dà speranze, né mai darà tregua a uno spicchio di sole passato di lì per offrire ristoro all’uomo giù a picco nella trappola mortale.
L’evoluzione della malattia mette a soqquadro il rapporto affettivo già precario di Esperia con la figlia. Due donne, due pianeti distanti per non incontrarsi mai. L’afflato simbiotico madre-figlia non ha mai esercitato il suo credo in abbracci, carezze, espressioni di tenerezza. Adesso, nel momento della prova, le lacune affettive riaprono ferite mai sanate. Da questo momento in poi serviranno parole sconosciute a quella che è stata l’età d’oro della vita di una giovane figlia, quando il viso non aveva rughe e il passo correva spedito. La malattia anestetizza il passato ma non lo cancella, a volte ne esagera i drammi, tutta colpa di quel maledetto orgoglio innamorato di sé, allo stesso tempo indifferente al piano d’amore vicino al miracolo.
“Quando morirà sprofonderò nella colpa che mi vado costruendo giorno per giorno. Sarà pronta per il suo funerale. La colpa è vuota. È il vuoto delle mie omissioni. Ometto l’amore, le mani. La cura di cui più ha bisogno, lascio che le manchi. Le somministro la sua storia e ogni dodici ore la memantina idrocloruro da dieci milligrammi, compresse divisibili, con la moderata speranza che rallenti la degenerazione dei neuroni“.
Nel tempo della pena poco conta che un rapporto sia “andato storto sin da subito“. La figlia diventa madre della sua stessa madre e del suo nuovo ruolo ne farà strumento per avvicinare gli anni nemici del bene, avendo maggior cura di quelli ancora dispersi nelle tenebre rancorose.
Sebbene le parole non dette siano molto più eloquenti di quelle gridate dentro e fuori il cuore dell’anima, le emozioni sono rassegnate a vivere una maschera di pace dentro il groviglio neurologico che le ha prese in ostaggio.
La malattia della madre desta da quell’insano torpore emotivo la figlia sana nel corpo ma assai provata nelle pieghe dell’anima. Del resto, il terreno senza seme inaridisce il cuore allontanandolo dalla gratitudine. Per tutta la sua vita la figlia di Esperia è stata indifferente al richiamo del grembo che un tempo le fu casa, nutrimento, riparo. Adesso che il legame di sangue ha bussato alla porta con la diagnosi di una grave malattia di colei che pochissime volte chiamò “mamma”, la donna adulta mai stata figlia ritorna nel limbo in cui è stata cresciuta a digiuno d’amore. A imbrattare una cruda cornice di vita ci ha pensato la miseria degli anni ’40. Mancava il necessario per vivere, non c’era una tomba dove morire. Mancava l’acqua, il bene primario dell’uomo e della terra sua umile serva (o meglio, sovrana di tutto il pianeta). L’ analfabetismo viene combattuto con la presenza attorno a un tavolo dove si consuma il rispetto delle tradizioni.
La voce narrante di una figlia pressata dalla responsabilità di accudire una madre scandisce il dramma psicologico vissuto in compagnia dei ricordi. Mentre la stagione dell’oblio rade al suolo le virtù della coscienza, il castello di rabbia conquista nuova forma attraverso l’elaborazione di un rapporto madre-figlia incline al perdono.