“Fai piano quando torni” di Silvia Truzzi

“Fai piano quando torni” di Silvia Truzzi

Quattro occhi puntati su orizzonti diversi. A prima vista è quanto potrebbe intuirsi dalle due donne divise da un muro di compleanni. Margherita e Anna sono le protagoniste principali del romanzo “Fai piano quando torni” che Longanesi pubblica nella collana La Gaja Scienza. Trattasi del romanzo d’esordio della scrittrice Silvia Truzzi, nata a Mantova e residente a Milano. Giornalista del Fatto quotidiano, Silvia Truzzi ha dato alle stampe “Un Paese ci vuole” (Longanesi, 2015)  “Perché No” (2016), scritto a quattro mani con Marco Travaglio, “Il cielo sbagliato” (2022).

Il romanzo accoglie con naturalezza il tema della resilienza, il termine forse più in voga del tempo moderno. La natura empatica della storia si intravede già nella dedica della scrittrice al padre, segno di un legame intimo e indissolubile con la sfera degli affetti.

Margherita, 34 anni, Anna 76. Due donne, due generazioni si incontrano per la prima volta in una stanza d’ospedale che non nasce per favorire l’apertura verso l’altro, ma per custodire la distanza. Le pareti bianche sembrano respingere ogni tentativo di avvicinamento, ostili a qualsiasi germoglio di nuova amicizia. Dolori e sofferenze hanno prosciugato ogni traccia di sorrisi, ogni ombra di complicità. Ma il destino corre spedito al richiamo di voci sommerse in quell’isola infelice.

Margherita è una bellissima ragazza di brillante virtù che Silvia Truzzi fotografa con l’inchiostro in un tempo di dura prova di questa giovane vita. A causa di un incidente stradale la ragazza si trova confinata in quella camera per ricucire le ferite fisiche e psicologiche del dramma appena vissuto. Su quel letto il dolore fisico si intreccia a quello dell’anima in un lento tentativo di rinascita. Margherita non è sola. Accanto a lei c’è Anna, una donna dai capelli d’argento costretta a ricorrere alle cure ospedaliere a causa di un femore che le frena il passo. Il celebre detto “l’età è solo un numero” trova in Anna una perfetta incarnazione, sintesi del suo atteggiamento vitale e anticonvenzionale.

Prova ne è che la chiave interpretativa della figura di Anna e della sua visione della vita si mostra aperta agli afflati entusiasti di essere presenza pulsante nel mondo. Quando l’acqua del fiume sta per annegare nel mare, l’attimo prima una forza naturale sembra respingere l’insano gesto. Un desiderio d’identità non potrebbe mai diventare fatto provato se non ci fosse il tempestivo intervento di un’àncora tutta compassione, pronta a fermare il compimento del piano.

L’ àncora si chiama Anna, sarà proprio lei l’onda anomala, ma benefica, di cui Margherita ha assolutamente bisogno. Gli anni di Anna accatastati sul cuscino equivalgono a esami superati per la cura degli animi colti dall’ossessione di guardare indietro, come lo è la debolezza di Margherita, che già da tempo ha smesso di lottare per un futuro migliore.

La ragazza scava tra le pieghe della memoria e ne trae frammenti di volti, parole, rughe dell’anima travolte da sentimenti di rabbia.

Anna e le sue due orfanità. La morte del padre otto anni prima e l’abbandono del compagno dopo cinque anni di relazione riempiono pagine che nemmeno la pregiatissima pergamena riuscirebbe a far rinsavire uno spirito aggredito da una violenta corrosione che consuma la memoria del bene.

Ciò che Anna le offre non è nient’altro che il vivace spettacolo della sua personalità. Con tanta grinta lascia che il passato dissolva le lacrime immeritevoli di suscitare emozioni. Non succederà che il buio la scopra a mani giunte sul letto della disperazione, perché la vita merita di essere vissuta malgrado siano spietati i morsi che azzannano le ore felici.

«Quanti anni hai?» Pensai che fosse il momento di mettere le cose in chiaro. «Signora, io non ho mai voglia di parlare.» La vecchia mi guardò spalancando gli occhi celesti, troppo grandi, improvvisamente dolcissimi. «Va bene, bambina.» Si alzò, diretta verso il suo letto. Da quando ero in ospedale non riuscivo neanche a piangere, ma qualche volta sognavo Francesco che mi diceva la nostra frase: «fai piano quando torni».

Anna sceglie la vita, Margherita la sopprime nella forma più crudele: odiandola. Poco conta se il respiro testardo decide di restare nel giardino dove il piccolo miracolo di un filo d’erba scuote la terra baciata dal sole.

Che meraviglia! Che dono è la vita!

Anna parla una lingua che ha coniato sulle sue silenziose battaglie. La forza in lei ha preso voce  “non perché ha scelto solo se stessa, o perché non sente. Perché è viva. Dice di sì e mai di no. Si avvicina e non si allontana. Non cerca una giustificazione della sua esistenza se non nei minuti della sua vita. Non guarda gli altri per vedere nelle loro mancanze le sue vittorie. È solo questo. Le piace vivere. Mangia, ama, fuma.”

Anna è nuova sorgente che disseta una Margherita sfiorita nel rimuginio rivale della santa quiete. Perché continuare a lottare se i graffi del male sono emblemi di un rogo? Chiusa nella sua bolla di vita apparente la ragazza rifiuta ogni germoglio di speranza. Brava la Truzzi nel tratteggio delle due personalità coinquiline di una stanza d’ospedale, entrambe ignare del miracolo emotivo prossimo a sciogliere due solitudini di diversa natura.

Piccoli ma decisi, i primi passi degni di fiducia si fanno strada fino a Margherita ormai diventata un tutt’uno con le suppellettili della stanza. Non più corpo immobile tra le lenzuola sterili di calore, la voce di Anna la attraversa come uno tsunami di bene, risvegliando ciò che sembrava spento.

“Tu non sai tanto stare al mondo”, le dice Anna, “Tu pensi sempre alle stesse cose. Pensi che la tua vita non ha senso senza quel Francesco. Che tutto fa schifo. Tua madre, non parliamone. Sai solo star male. Ma guarda che star bene è più difficile che star male.”

sara