“Le stanze dello scirocco” di Cristina Cassar Scalia

“Le stanze dello scirocco” di Cristina Cassar Scalia

Prima del giallo il rosa. Questa penna si rivolge alla sua collega di storie che raccontano il processo di formazione di una scrittrice che, nel 2015, non era ancora il vanto della letteratura contemporanea. Nel 2024 Cristina Cassar Scalia siede tra i nomi illustri sulle copertine in primo piano nelle vetrine di librai, classifiche e premi letterari di prestigio.

Le stanze dello scirocco” è tenuto a distanza dal cambiamento dello stile narrativo che ha poi consacrato la scrittrice “regina” dalle doti eccelse. Nata sotto il sole di Sicilia, nella città di Noto, Cristina Cassar Scalia scrive della sua piccola patria senza preoccuparsi di tenere in ombra i vizi che ne imbrattano l’intera superficie.

Nel 2015 la scrittrice consegnò alla casa editrice la narrativa che seguì il romanzo “La seconda estate“, la sua prima prova del battesimo narrativo. È “una storia di Sicilia“, uno sguardo all’indietro di quasi mezzo secolo profumato di fatti ansiosi di sciogliere i nodi della terra siciliana.

Promotore dell’intricata vicenda che la penna indica come guida del viaggio a ritroso nel tempo, si legge in primo piano il nome del notaio Enzo Saglimbeni di ritorno in Sicilia dopo anni di lontananza.

La Sicilia è mavàra. Quando uno se ne va, lei gli fa la fattura: che se non torna muore di nostalgia“.

Da Roma a Montuoro, piccolo paese immaginario della città di Palermo, il notaio attraversa la penisola in compagnia della figlia Vittoria, ventiduenne, studentessa universitaria, un fiore strappato alle foglie anticonformiste che la condurranno all’alba di una storia d’amore. Tra dualità registrate su consuetudini nemiche, la trama del romanzo si snoda in un’ambientazione suggestiva ma frequentata da personaggi invischiati in retaggi culturali assai più remoti degli anni ’60, gli anni sotto i fari del romanzo. Il pregiudizio non ha ancora approntato le armi della rivoluzione che darà luce una società meno inficiata dall’ipocrisia in risposta alle ripetute contestazioni. In questo paradosso invertito trovano fresco respiro i palazzi nobiliari di una Sicilia che un tempo fu regno di culture e civiltà firmatarie della storia.

L’amore siciliano di Vittoria (Vicky) si chiama Diego Ranieri, un uomo riflesso di figlio autentico della terra bella come il sole che però nasconde tra le ombre delle intime fragilità. Da maschilista cresciuto ai piedi della nazione in pieno fermento nella lotta alle diversità, brevi e isolati fatti rivelano la presenza di una maschera dietro la personalità di Diego.

Era arrivata lì preoccupata, contrariata, prevenuta, e in più orgogliosamente libera da legami amorosi. Aveva temuto ciò che invece adesso le sembrava di poter gestire benissimo, in fondo anche divertendosi. Si era innamorata di un uomo che più siciliano non poteva essere, e di una terra che, una volta conosciuta, l’aveva avvolta nelle sue sensuali spire senza più lasciarla andare”.

L’ avanzamento della storia procede a ritmo affine a un gemellaggio con volumetti di letture adolescenziali. Quando non si ha contezza delle proprie inclinazioni letterarie, succede che i primi accessi nella carta stampata si avvalgono di tacchi a spillo odiosi all’equilibrio.



Due novelli promessi sposi si muovono nella Palermo degli anni ’60 permeata dall’eco non troppo lontano da un retaggio storico ancora vivo nella coscienza sociale. Vicky sembra aver assorbito la forza del calore siciliano che ha mitigato la sua irruenza e incenerito l’orgoglio. Diego, un personaggio cucito sulla scia dei romanzi rosa accatastati sul comodino di un’attempata nubile sognatrice.

Il fascino di una stanza frequentata dai tumulti di sangue siciliano sollecita vibranti respiri non appena si viene catapultati dentro le dimore nobiliari.

Quando lo scirocco – il vento siciliano per antonomasia – arroventava l’aria, quegli ipogei erano una sorta di rifugio, in cui anche il tempo assumeva un’altra dimensione“.

Di tanto in tanto, un discreto numero di comparse fa la spola tra le conversioni culturali edulcorate dall’uso del dialetto siciliano.

Diego o non Diego, lei non avrebbe mai più voluto vivere in un posto che non fosse la Sicilia, o in una città che non fosse Palermo. Non avrebbe provato piacere ad attraversare campagne che non fossero bordate da muretti a secco e da macchie di fichidindia. Forse era mal d’Africa, come diceva Chiara, o forse semplicemente la voce del sangue”.

A chiusura del cerchio di matrice storica si assiste all’incrocio in cui il passato e il presente confrontano le sensibilità traendone il beneficio del rispetto reciproco. L’autrice affida a Vittoria la lettura dei comportamenti votati all’apparenza così come la mentalità patriarcale del tempo imponeva.

Stretto nelle convenzioni sociali, ogni spirito di mutevole natura fatica a liberare la propria tipicità fino a poi scoprirsi essenza indispensabile del suo stesso riflesso.

E intanto… all’altro capo della vicenda romanzata fa capolino il fiore di zagara che profuma lo scatto in bianco e nero degli anni scaduti.

sara

Credit foto Google/Ibs