“La Mennulara” di Simonetta Agnello Hornby

“La Mennulara” di Simonetta Agnello Hornby

SICILIA – Sono gioielli siciliani i romanzi di Simonetta Agnello Hornby, scrittrice nata a Palermo ma cittadina inglese per lavoro e per amore. Il protocollo inglese non è mai riuscito ad estirpare le radici sicule aggrappate alle abitudini passionali dell’Etna. Due date registrano l’incipit editoriale de “La Mennulara“, il romanzo pubblicato per la prima volta nel 2002, fu poi riproposto al pubblico nel 2019 con una nuova veste grafica e arricchito di capitoli inediti.

Simonetta Agnello Hornby ha sempre consegnato al suo editore storie di donne forti, spesso rinchiuse in un palazzo o in un convento, ma tutte con l’incarnato di porcellana in grado di frantumare leggi e consuetudini maschiliste, anziché cadere ai piedi delle volontà di chi si è eletto loro padrone. Madri, mogli, figlie. Femmine da piegare come foglie rattrappite dalla stagione tiranna, passiva e insensibile all’acquerello dipinto sulle guance fresche di virtù.

Il 23 settembre 1963 muore Maria Rosalia Inzerillo, detta la Mennulara. La finestra sul romanzo apre i battenti con la morte della protagonista. Altre voci parleranno di lei e per lei, della sua vita pseudo cristallina oggetto di cuttigghiu dagli abitanti del piccolo paese prestato a palcoscenico della storia, Roccacolomba. La Mennulara era ancora una bambina quando, il suo infelice destino, la portò nel bosco a raccogliere le mandorle.

Era tra le più giovani , ma nessuna era brava come lei: si dava da fare con concentrazione e caparbietà, pronta ad aiutare le altre e a imparare. Le sue mani non perdevano una mandorla, un’oliva, un pistacchio, come se i polpastrelli avessero occhi. Li scovava tra le zolle di terra dura, in mezzo alle pietre, nei rovi. Dove passavano quelle piccole dita minute non restava bacca o frutto da raccogliere, né per terra né sui rami, senza paura si arrampicava sugli alberi alti per staccare le mandorle più difficili, quelle che non vogliono cadere sotto i colpi delle bacchette“.

Il profumo di zagara inebriava il primo azzurro del cielo appena sopra le fronde degli alberi più imponenti, i rami più curiosi quasi sfioravano quella infinita distesa di mare sottosopra. La Sicilia degli anni ’60 si agitava tra le sbarre della prigione imposta al servo, schiavo per sempre della sua condizione. Povero in fasce, povero in pasto ai vermi, inutile era ogni perversa ribellione, l’ultimo respiro avrebbe bussato alla sua porta per sorprenderlo nudo come un neonato appena venuto al mondo. Come la Mennulara, che da serva visse, da serva morì.

Il mio dovere è di servirli, e sono capace di farcela. Non sono stata io a scegliermi dei padroni che mi sono inferiori. Padroni sempre sono, e io sono destinata a essere la loro serva“.

Alla morte di Maria Rosalia Inzerillo si dipana la matassa ingarbugliata di fili stretti l’uno all’altro, eppure infastiditi dal contatto obbligato. La Mennulara fu donna di fiducia della facoltosa famiglia Alfallipe, “fimmina” scaltra anche se analfabeta, serva fedele al suo padrone fino al giorno in cui l’estrema unzione le baciò l’anima odiata dai figli dell’avvocato.

Carmela, Gianni e Lilla Alfallipe sono tre avvoltoi affamati delle proprietà elencate nel testamento della Mennulara, le sue ultime volontà depositate nero su bianco. Eredi di niente sono, bocche aperte sull’eredità da spartire secondo il piano strategico della “criata”.
Il magma del vulcano contagia il volto avido di possesso istruito a ricevere e mai a dare, nessuna pietà per l’ingrato venuto a portare tasche vuote da riempire durante il sonno dell’onesto.

Passato e presente ruotano nel racconto della vita di una governante che ha cresciuto con amore i figli del suo padrone, preservandoli da un futuro in pericolo di disgrazia. Il denaro obbliga la corsa alla divisa per andare a combattere la guerra degli ingordi. Vincerà la dignità, la vedranno sfilare sui cadaveri obesi di arroganza e godrà delle sue medaglie rese lucide da innumerevoli lacrime. Sotto le scarpe rotte la terra di Sicilia pulsa di doveri assolti nella piena consapevolezza di essere fragili sì, ma tenaci ramoscelli di un ulivo di pace.

Nel 1963 la Sicilia si risveglia dalle ceneri della guerra generosa di uomini d’onore, pronti a imbrattarsi le mani di sangue e malaffare.
Quali ferite della guancia sinistra della sua terra d’origine, Simonetta Agnello Hornby dissemina nel romanzo nomi di uomini mafiosi. Il comunista Gaspare Risico, Don Vincenzo Ancona, il notabile Pietro Fatta, sono tutti malnutriti rivoli di lava attorno a quella “fimmina” di vulcano sempre pronta alla prossima eruzione.

Due, tre, quattro strati di società civile dormono sotto lo stesso tetto di un aristocratico palazzo; servi, padroni, eredi, mafiosi, banchettano insieme sul tavolo ipocrita condiviso per loschi interessi. Non mancano le note di mistero, piccole oasi emerse per far tremare gli animi di un salotto frequentato da ospiti in continuo fermento. Com’era possibile che quella “criata”, quella “fimmina di panza” , avesse accumulato tanto denaro? Con chi aveva intrecciato rapporti equivoci? Bisognava scandagliare tutta la vita della domestica, dalla culla alla bara, gli eredi Alfallipe “smaniavano” per arrivare alla Verità.

I tre probabili eredi dovevano guadagnarselo quel denaro, onorando con spirito di obbedienza le singolari volontà contenute nel testamento.
La criata aveva stipulato un patto con la morte, con essa era diventata la padrona dei suoi padroni. In vita era stata vittima di violenze incoraggiate a forare l’anima, il suo cuore stordito aveva messo a tacere per sempre la voce dei sentimenti, i suoi segreti sarebbero stati seppelliti con lei.

Un secolo fa la Sicilia sembrava voler mantenere la promessa di avere cura del suo dialetto, nel 2000 il dubbio pone più di una domanda: lo scorrere del tempo cancellerà l’identità siciliana scritta dalla Agnello Hornby, da Camilleri, da Tomasi di Lampedusa? Tra cento anni i capolavori degli scrittori qui citati saranno romanzi d’altri tempi? Li chiameranno romanzi storici, sebbene l’attualità dei contenuti permetta di dubitare sulla definizione.

Leggere Simonetta Agnello Hornby con la sua voce cristallina è accessorio elegante per il lettore di tutti i suoi romanzi, e per chi ha ascoltato più e più volte le sue interviste. L’accento inglese manca, ma forse gode il suo riposo nel placido fluire di un prestigioso patrimonio culturale.
La Mennulara è stata la prima opera dell’avvocato Agnello Hornby, intelligenza itinerante tra Londra a Palermo. Come lei stessa racconta in un’intervista, la prima stesura vide la luce il 2 settembre 2000 all’aeroporto di Fiumicino.

Simonetta stava per imbarcarsi sul volo della British Airways diretto a Londra quando, pur di non occupare le ore di una noia che non le appartiene, diede spazio all’immaginazione per costruire il telaio di una storia completa di titolo, trama, personaggi, nomi e la parola FINE nell’esatto momento in cui il pilota stava sorvolando Parigi. La storia della Mennulara era stata concepita tra i cieli d’Europa, il prossimo passo sarebbe stato tradurre la versione cerebrale del romanzo sulla carta.

Edito da Feltrinelli, il primo romanzo di Simonetta Agnello Hornby è un bestseller tradotto in 19 lingue, vincitore di premi letterari prestigiosi quali il Premio Stresa di Narrativa, il Premio Alassio Centolibri – Un Autore per l’Europa, il Premio Letterario Forte Village, il Premio del Giovedì Marisa Rusconi.

Fonte foto: Google/IBS