“Il mio anno di riposo e oblio” di Ottessa Moshfegh

“Il mio anno di riposo e oblio” di Ottessa Moshfegh

SICILIA – Tutte le decisioni trattenute dai dubbi prima o poi subiscono la fretta del momento. L’esito spiega il suo disordine nel battito accelerato dalla consapevolezza di un ritardo imperdonabile.

Correre, correre lungo la foce del fiume che ha già registrato il suo verdetto, la sentenza e la pena. Arrampicato sulla fragilità del troppo sentire il nervo dell’uomo scivola protetto da nessun freno lungo le coste rocciose dell’anima.

Ottessa Moshfegh nasce a Boston, da padre iraniano e madre croata. I suoi genitori sono entrambi insegnanti. Dopo aver completato gli studi universitari collabora con diverse riviste letterarie nella città di New York dove, tra il 2012-2014, pubblica racconti e il primo romanzoMcGlue“.

Al suo battesimo editoriale segue “Eileen” pubblicato nel 2015, finalista del Booker Prize da cui è stata scritta la sceneggiatura di un film prodotto da Scott Rudin.

Il mio anno di riposo e oblio” è il suo terzo romanzo consegnato in casa editrice nel 2018.
Una logistica inusuale appare la firma di una giovane scrittrice in un testo devoto al desiderio di isolarsi dalle vibrazioni del mondo, quelle che incontri subito fuori la porta di casa. Non c’è traccia di capelli bianchi, nè crepe sulla pelle, eppure la trama del romanzo sembra curata da una penna con una carta d’identità ingiallita.

Una bellissima ragazza di New York, la città che non dorme mai, affida a un cuscino il suo corpo giovane e sano per far riposare la veglia ubriaca di ore. Succede che le carte di credito con plafond illimitato si rifiutano di correre in soccorso di un cristallo sul bordo di una mensola.

La fragilità annuncerà le crepe quando un giorno, all’improvviso, ingombrerà il pavimento di ossa abbandonate all’oblio dei sensi.

È questo ciò che decide l’attrice protagonista di un romanzo scritto e pubblicato per lasciare senza fiato il lettore e, senza alcun dubbio, la mano che ha tratteggiato l’agio e il disagio psicologico di tutti i condomini del testo. Rimanere al mondo con un simbolico respiro, casa e tetto della vita in vita grazie all’esercizio ginnico del diaframma.

Lo chiamano riposo, è l’annullamento di un matrimonio con se stessi, la libertà subito dopo i gradini dell’altare in cui si è appena celebrato il sigillo immortale. Perché una donna innamorata del suo uomo sceglie di evaporare dalla vita con la complicità di una lunga lista di barbiturici, ansiolitici, droghe legali prescritte da una pazza psichiatra? Come si chiama la cellula sorpresa a vagare in quella mente già esausta nell’incipit del suo soggiorno terreno?

Diventare pagina bianca, pergamena intonsa allergica all’inchiostro che ha saputo solo macchiare il velo della virtù, quando invece bastava che qualcuno ascoltasse la voce segreta della serratura incompatibile con la chiave.

Ed è quasi una storia d’amore quella con il sonno obbediente al comando di eternare il momento in una clessidra instancabile, esposta al rischio di sorseggiare gli ultimi istanti sul marmo freddo di una lapide. Perché chiedere acqua a un bicchiere vuoto fa impazzire l’arsura, perché tutto non basta mai, e allora chiedere asilo al nulla forse riuscirà a salvare qualcuno. Lei.

Un’autentica fuga dal quotidiano insonne somiglia a un vulcano spento da secoli ma pronto a risvegliarsi nel lampo di un giorno. Per devastare.

Non è colpa della sua esile figura se non riesce ad allontanare da sè il macigno del lutto. Con la perdita dei genitori è nata un’orfana senza età.

Chiusa nel suo bozzolo imbottito di farmaci, la ragazza senza nome confida di uscirne farfalla grata alla pazienza di una metamorfosi sotto anestesia.

Potevo pensare a sentimenti ed emozioni, ma non potevo farle emergere in me. Non riuscivo nemmeno a capire da dove venivano le emozioni. Il cervello? Non aveva senso. L’irritazione era quella che conoscevo meglio- un peso sul petto, una vibrazione nel collo come se la mia testa stesse scaldando i motori per staccarsi dal corpo“.

Di questa donna non si conosce il nome ma nessuno si chiede il perché. Il fruscio delle pagine alza il sipario al flusso di emozioni della Protagonista; da quel momento non è più anima anonima, piuttosto spirito puro e indifferente alla carta d’identità.

Summa d’atmosfera funerea, dirà il lettore testimone di un disagio emotivo sotto ipnosi.
Quanta bellezza mortificata dal buio in attesa di diventare sole di mezzogiorno, capelli biondi sparsi sul cuscino arresi al ritornello delle lancette. Intanto l’eclissi intrattiene la paralisi, senza tener conto delle conseguenze di una decisione scellerata.

Se l’epicentro di un’emozione non affiora, si moltiplica in milioni di particelle disseminate nel cuore chiuso in una stanza senza finestre.

Poco contano le notti avvinghiate alla zattera di fortuna con il nome di un inganno: Trevor, amante innamorato di sé e nessun altro, mesi di una singolare psicoanalisi da consumare in fretta sotto le lenzuola madide di sudore. Si chiama passione perché passa. E con essa va via anche Trevor assieme ai numerosi appuntamenti di terapia per curare un nodo esistenziale con il calore bugiardo.

E poi Reva, la giovane paladina dell’amicizia ricalca su misura il personaggio di un buffo cartone animato, una sorta di grillo parlante ma discreto, disposto a condividere la croce costruita a mani nude dall’amica nella sua volontaria “ibernazione”.

Una bella ragazza dai capelli color miele decide di fondersi con un banco di nebbia quando la sua età vorrebbe gioire del suo alito di vita, correre a piedi nudi per lingue di sabbia su cui stremare il fiore precario della giovinezza.

In dosi abbondanti il nettare del lieto fine non dovrebbe trovare difficoltà a tagliare il nastro della vittoria, eppure il privilegio del regno surreale sorprende una favola che non c’è.

Mi sarei sentita rinata, nuova. Avrei potuto diventare un’altra persona, ogni cellula rigenerata tante volte così che quelle vecchie sarebbero state solo memorie sfocate, distanti. La mia vita passata sarebbe stata solo un sogno, e avrei potuto ricominciare senza rimpianti, rafforzata dalla beatitudine e dalla serenità accumulata nel mio anno di riposo e oblio“.