SICILIA – Non ci si può distrarre dalla lettura di un romanzo breve. Pretende alti livelli di attenzione. Esige la devozione della pupilla su virgole e accenti, un modesto assembramento di pagine ha pari dignità della folla di un manuale.
Nata a Kiev nel 1903 da un ricco banchiere ebreo russo di origini francesi, Irène Némirovsky scopre il talento e la passione per la letteratura quando è ancora un’adolescente lontana dal rogo della guerra che spegnerà tutti i suoi sogni. Quando nel 1917 esplose la Rivoluzione Bolscevica, Irène e la sua famiglia si trasferì in Francia dove visse un’esistenza serena fino all’alba della II guerra mondiale. Studiò lettere alla Sorbona, nel 1924 conseguì la laurea.
Il suo primo romanzo “Le Malentedu” fu pubblicato nel 1926. Nel 1929 conquistò il pubblico con “David Golder”, il romanzo che la introdusse nei più frequentati salotti letterari.
“Il ballo” fu pubblicato nel 1930 durante gli anni dell’addio a un’adolescenza segnata da un difficile rapporto con la madre, da sempre attratta dalla vita mondana e distratta dal suo ruolo all’interno di una famiglia a metà.
Le vicende politiche e sociali dei primi anni del Novecento sono inglobate in questo romanzo dove fa festa una società mediocre la cui massima aspirazione dà sfogo al pettegolezzo, all’ipocrisia, alla recita della vita sul palco della finzione.
Procedendo con la lettura non troveremo una scheggia di tenerezza, ancor meno d’amore, piuttosto tanto disprezzo rovesciato sull’innocenza. Un ballo al centro della battaglia familiare da salotto in guerra, combattuta da armi non identificate se non quelle profuse dal pericoloso germe dell’invidia.
Rosine Kampf è una donna di mezz’età, nuova al benessere economico. La ricchezza la coglie all’improvviso, e di quel tempo ancora per poco esente da rughe e crepe vuole godere appieno tutto lo scampolo di giovinezza che le rimane. La figlia Antoinette ha 14 anni e porta con sè l’alito fresco dell’aurora, l’ora del tramonto è ancora lontana, c’è da nutrirsi dal vassoio d’argento dei suoi pochi anni. Quale migliore occasione partecipare a un ballo per fare il suo ingresso in società?
Rosine teme il confronto con il candore della figlia, se Antoinette partecipasse al ballo la sua vanità morirebbe di miseria. Madre e figlia sono legate da un vincolo di sangue allergico all’intimo afflato dettato dalla legge naturale.
“Era l’attimo, l’istante impercettibile in cui si incrociano “sul cammino della vita”: una stava per spiccare il volo, l’altra per sprofondare nell’ombra. Ma non lo sapevano.”
Logorata dalla gelosia, Rosine vieterà ad Antoinette di prendere parte al ballo, sarà lei sola la regina indiscussa della serata.
Le due rivali accendono il fiammifero ignaro di essere sacrificato al patibolo di un furioso incendio. Qui, Irène Némirovsky affonda la penna guidata dal polso tremante, lei e Antoinette, sua madre e Rosine, quattro personaggi e non più due entrano nel salone allestito con sfarzo per un ballo che non avrà mai luogo. Il fantasma della rabbia pianifica una vendetta crudele, servendosi di un’adolescente in ostaggio della sua età.
Non ci sarà alcun ballo, tulle e merletti possono tornare a riposare nei cassetti, argenti e porcellane vengono accompagnati al muro dall’ira indomabile. Con millimetrica precisione il calice amaro ha coperto di vergogna Rosine, madre legittima del suo disonore, figlia naturale del livore di Antoinette. Ospite d’onore della serata sarà l’ironia della cattiveria, rimasta da sola a danzare sopra le note sfuggite alla direzione dell’orchestra.
“Nessuno le voleva bene, non una sola anima al mondo… Ma non si rendevano conto, ciechi, idioti, che lei era mille volte più intelligente, più splendida, più profonda di tutte queste persone che osavano crescerla, educarla, istruirla… Dei volgari parvenu, ignoranti… Ah! Come aveva riso di loro tutta la sera, senza che se ne accorgessero, ovviamente… Poteva piangere o ridere sotto i loro occhi, non si sarebbero degnati di vedere niente… Una figlia di quattordici anni, una ragazzina, qualcosa di spregevole e basso come un cane… Con quale diritto la mandavano a dormire, la punivano, la insultavano? “Ah! Vorrei che morissero”.
L’infelice Antoinette crede di rinascere dalle ceneri seppellendo le gioie non sue, la giovane chiusa nello stanzino isolato dal mondo si affaccia da una finestra sadica per dare una risposta al grido delle sue ferite.
Le due facce della medaglia s’incontrano davanti allo specchio dell’amara verità: un rapporto logorato dall’inutile eccesso si ritrova a soffrire di piaghe portate a casa da un perbenismo in maschera. L’arte meschina di sfoggiare il lusso miete vittime ingorde di illusioni mal gestite dal sogno che, quando non riconosce il suo limite, il disastro spalanca il sipario all’inevitabile realtà. Il romanzo è chiaramente autobiografico, 14 anni sono leggerezza di ali ancora inesperte di tecniche di volo, Antoinette patisce àncore come calamite di piombo ormeggiate in una prigione. È l’età del contrario anche dove il contrario non c’è, soprattutto se manca l’equilibrio emotivo per esercitare i primi vagiti di una consapevolezza ancora in fasce. L’adolescenza incrocia la sua vittima preferita in una bambina orfana dell’amore filiale, un turbamento pericoloso perché emerso nel tempo in cui le assenze sono voragini.
Altro tema chiave del romanzo siede nella bramosia delle vanità a qualunque costo, non importa se ottenuta con la conduzione di affari poco cristallini. La felicità ha un prezzo che il denaro non può comprare, solo tanta pena per l’empio avido di tasche ingozzate del nulla, l’unico obiettivo da centrare è infiltrarsi negli ambienti poveri di pudore.
La Némirovsky confeziona la disamina dei sentimenti negativi condotti all’estremo del loro potenziale sinistro, “Il ballo” insegue le note di un’orchestra da congedare, la causa è tutta nel pentagramma stonato alla formazione dell’adulto. Nella stesura del romanzo c’è il fragile vissuto della scrittrice russa integrata in una famiglia anaffettiva. Da qui, il fardello di emozioni soffocate conduce al nodo di rancori sulle vite coinvolte nella sventura. L’ambizione può essere una virtù solo se tenuta distante dal suo primo nemico: l’egoismo, quel velo torbido che annebbia il desiderio di vincere senza umiliare.
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