La pedagogia dell’odio: Paolo e Giuseppe, due ragazzi uccisi da una terra che insegna violenza

La pedagogia dell’odio: Paolo e Giuseppe, due ragazzi uccisi da una terra che insegna violenza

SICILIA – È la sera dell’11 ottobre 2025 quando un 21enne palermitano viene fatto fuori a colpi di pistola. Il suo nome è Paolo Taormina. Meno di un mese dopo l’omicidio di Paolo, i giornali non ne parlano più, il perché? Hanno sparato ad un altro ragazzo, un 16enne. Giuseppe Di Dio “muore per errore” si legge in rete, ed è qui che sorge la domanda: e se a morire fosse stato il bersaglio sarebbe invece stato “giusto”?

Le parole sono la trasposizione concreta dei nostri astratti pensieri e oggi il pensiero siciliano sembra ancora rispecchiare quell’idea maschista di violenza giustiziera e spedizioni punitive. Perché la morte di un ragazzino è una tragedia, ma tragedia sarebbe rimasta anche se a morire fosse stato il vero bersaglio.

La Sicilia che non riesce a proteggere i suoi figli

Un disastro per la famiglia, gli amici e soprattutto per un paese che non riesce, e forse non riuscirà mai, a sradicare la cultura dell’odio dalle case dei suoi cittadini. Perché quei cittadini possono permettersi di uscire con una pistola in tasca e farsi giustizia. Nei confronti di Giacomo Frasconà Filaro, del fratello Mario e del padre Antonio, i carabinieri hanno eseguito un fermo di indiziato di delitto per omicidio, tentativo di omicidio, detenzione abusiva di armi, detenzione di arma da fuoco clandestina, lesioni personali e ricettazione. “Conosco la famiglia del presunto omicida, persone con diversi precedenti penali”, ha spiegato il sindaco di Capizzi, Leonardo Giuseppe Principato Trosso“L’anno scorso alcuni componenti della famiglia sono stati indagati per avere dato fuoco alla caserma dei Carabinieri, due giorni fa sono stati sottoposti a controlli perché sospettati di possedere armi”. 

Poteva essere una strage, quel bar è frequentato da molti ragazzini. I nostri carabinieri sono pochi e più volte ho chiesto al prefetto dei rinforzi”. C’è una parola molto interessante in queste dichiarazioni “ragazzini”. Perché Giuseppe era un ragazzino, in molti aspetti ancora un bambino. A 16 anni si è ancora immaturi, sognatori; Pensi alla fidanzatina, alla playstation, ai compiti che non vorresti fare dopo scuola e invece ecco come il mondo ti costringe a crescere senza preavviso perché “bisogna essere forti e maschi”. Ma la verità è che questa ideologia dell’uomo forte, non fa bene a nessuno, neanche al carnefice. Perché Giacomo, anche se un po’ più grande, resta un giovanissimo, manipolato da un’educazione contorta. 

Il tiktok e il parere della dottoressa Gentile

E come Giacomo, anche Gaetano – il 28enne arrestato per l’omicidio di Paolo Taormina – era un giovane, anche lui manipolato. Quest’ultimo subito dopo l’uccisione avrebbe deciso di “mostrarsi vincitore” con un tiktok. Faccia spenta, scavata, da mugshot. In sottofondo un dialogo tratto dalla fiction “Il capo dei capi”, dedicata al boss mafioso Totò Riina. Una forma di autocelebrazione e sfida. In questa concezione d’odio, rientra benissimo la descrizione del rapper pugliese Kid Yugi perché quaggiù “i bambini hanno imparato che è normale, perché gli hanno insegnato a non amare”, cita una sua barra nel brano “Ilva”. 

Sull’argomento è intervenuta ai nostri microfoni la dottoressa Valentina Gentilepsicologa e psicoterapeuta. “La tragedia di Giuseppe Di Dio, il sedicenne ucciso per “errore” a Capizzi, non riguarda soltanto un fatto di cronaca, ma evidenzia un fenomeno che interroga la nostra capacità di comprendere la genesi della violenza e il suo radicamento nei legami affettivi e sociali”.

Il codice invisibile dell’onore

“Senza entrare nel merito dei fatti, attualmente oggetto di accertamento giudiziario, ciò che emerge è la necessità di riflettere sul perché, ancora oggi, la violenza possa assumere la forma di una risposta “riparatrice” o punitiva, travestita da gesto d’onore”.

“In alcuni contesti culturali, l’onore continua a rappresentare un codice invisibile di legittimazione: una matrice affettiva e simbolica che ordina i rapporti, stabilisce i ruoli e giustifica la reazione. In questa grammatica emotiva, la violenza può diventare un linguaggio che sostituisce il pensiero — come accade quando l’affetto non trova rappresentazione psichica — trasformandosi in una matrice che struttura il modo di percepire se stessi e gli altri, una pedagogia distorta del potere”.

Il legame genitoriale

“L’atto di un padre che guida il figlio in una “spedizione punitiva” riveste un significato simbolico che trascende l’evento concreto: mostra come la violenza possa trasmettersi di generazione in generazione, quando il legame genitoriale — anziché spazio di cura — diventa teatro di ripetizione del trauma. La violenza non nasce dal nulla: è insegnata, modellata e interiorizzata, fino a farsi linguaggio emotivo e identitario”.

“Se si volesse leggere il fenomeno anche attraverso la lente del patriarcato, esso appare come una logica della paura: paura di perdere potere, di essere umiliati, di non contare. Ma è anche una logica del vuoto, in cui l’emozione non trova parola e si traduce in atto. Il patriarcato, si potrebbe considerare come una configurazione psichica che rimuove la vulnerabilità e nega la dipendenza affettiva, trasformando la fragilità in difesa e attacco. Trasmettere modelli di violenza significa, spesso inconsapevolmente, insegnare ai figli che esistere coincide con dominare, convertendo la forza non in una risorsa, ma in un attacco che si erge a protezione di un’identità fragile”.

La morte nei modelli interiorizzati

La morte di Giuseppe ci interroga su quanto la violenza si riproduca non solo nei fatti, ma nei modelli interiorizzati. Ogni gesto punitivo è l’espressione di una mente che non sa elaborare la frustrazione e di una società che fatica a offrire spazi simbolici per contenerla.

La giustizia autentica non nasce dalla vendetta, ma dalla possibilità di dare parola al dolore. Là dove la parola si estingue, la violenza diventa linguaggio — e il gesto, privo di pensiero, tenta disperatamente di colmare il vuoto del senso”.

Oggi resta realizzare che se non trasformiamo quel codice – nelle famiglie, nelle scuole, nelle istituzioni – continueremo a intervenire sempre troppo tardi. Perché la violenza non nasce nel momento in cui qualcuno preme il grilletto: nasce molto prima, quando non diamo nome alle emozioni, quando confondiamo la forza con il dominio. Giuseppe non tornerà. Paolo non tornerà. Il silenzio che sgorga, rischia di diventare l’abitudine più pericolosa.