Sfruttamento, prostituzione, incuria: nel mirino 5 romeni accusati di caporalato

Sfruttamento, prostituzione, incuria: nel mirino 5 romeni accusati di caporalato

RAGUSA – In esecuzione di un decreto di fermo, emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Catania, la Squadra Mobile di Ragusa ha posto in stato di fermo: Lucian Milea, 40 anni, nato in Romania; Monica Iordan, 31 anni, nata in Romania; Marian Munteanu, 31 anni, nato in Romania; Alice Oprea, 31 anni, nata in Romania; Marian Oprea, 37 anni, nato in Romania.

I primi due gravemente indiziati del delitto di associazione a delinquere finalizzata al traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo nonché di plurime ipotesi pluriaggravate di traffico di esseri umani commesse in danno di connazionali alcuni dei quali minori nonché dei delitti di sfruttamento pluriaggravato della prostituzione, anche minorile; gli altri tre gravemente indiziati del delitto pluriaggravato di traffico di esseri umani commesso in danno di connazionali a scopo di sfruttamento lavorativo.

Il provvedimento restrittivo accoglie gli esiti di un’articolata attività investigativa di tipo tecnico avviata dalla Squadra Mobile di Ragusa a seguito delle dichiarazioni rese alla fine del mese di settembre 2017 da un cittadino romeno (Mario, nome di fantasia) che, prostrato da una situazione di grave sfruttamento lavorativo, si presentava presso gli Uffici della Questura di Ragusa, attivamente coinvolti nel contrasto al fenomeno del “caporalato”, e offriva un agghiacciante narrato sulle modalità del suo trasferimento in Italia, sull’attività lavorativa in cui era impegnato, aggiungendo altri dettagli circa le condotte poste in essere non solo ai suoi danni ma anche ai danni di altri connazionali.

Le dichiarazioni di Mario, corroborate dalle dichiarazioni di un altro connazionale, determinavano l’avvio di attività tecnica nell’ambito di un fascicolo iscritto presso la Procura della Repubblica di Ragusa (successivamente trasferito a questo Ufficio per competenza) e il cui sviluppo consentiva di accertare l’esistenza di una associazione criminale finalizzata al traffico di esseri umani a fini di sfruttamento lavorativo, gruppo le cui attività criminali godevano anche del contributo di diversi connazionali dimoranti in Italia e nel paese di origine.

L’associazione riusciva nel tempo a curare il reclutamento, il trasferimento in Italia e l’immissione nel settore del lavoro agricolo di numerose vittime connazionali, tutte scelte tra persone in stato di estremo bisogno (in alcuni casi minori, in altri casi anziani, talvolta legati da vincoli di parentela ad alcuno dei sodali), analfabete o appena capaci di leggere e scrivere, tutte in condizione di peculiare vulnerabilità (“boschetari” ovvero senzatetto, persone prive del necessario e quindi facilmente soggiogabili e disposte a tutto, financo accettare miserrime condizioni di vita).

Le vittime venivano attirate con l’inganno e la falsa promessa di una occupazione lavorativa, di una sistemazione abitativa dignitosa e, poi, invece, private di ogni facoltà di negoziare condizioni di lavoro, di vita, private della facoltà stessa di pianificare il proprio futuro, si trovavano ad affrontare una dimensione paraschiavistica: oltre a non percepire nessuna somma di denaro per il lavoro prestato, venivano sottratti loro i documenti di identità; venivano mantenute in una condizione di totale isolamento sia dal paese di origine (in quanto i contatti con i familiari erano del tutto impediti ovvero venivano consentiti solo sotto il controllo delle informazioni veicolate ad opera dei sodali), sia dal paese ove erano giunti (dimorando nelle stesse abitazioni dei loro trafficanti che lasciavano solo per esser dagli stessi condotti sul posto di lavoro); veniva, inoltre, reso impossibile un autonomo ritorno al paese di origine perché in assenza di documenti e di denaro per pagare il viaggio nessuno avrebbe potuto scegliere di lasciare l’Italia e, soprattutto, attuare in concreto detta scelta.

All’arrivo in Italia tutte le vittime venivano costrette ad abitare in immobili privi di riscaldamento, a vestirsi con indumenti prelevati dai rifiuti, a cibarsi di alimenti scaduti o di pessima qualità e in minime quantità, condotte nei vari terreni dai sodali e ivi controllate al fine di mantenerne alta la produttività e, quindi, i margini di guadagno del sodalizio: l’aberrante strumentalizzazione determinava talvolta alcuni di essi alla fuga che, tuttavia, durava ben poco, poiché i sodali erano in grado direcuperare” le vittime fuggite, facendo pagare loro amaramente la ribellione, con violenza inaudita; anche le vittime recalcitranti subivano simile trattamento violento, finalizzato a piegarne la volontà e a fungere da esempio per gli altri, scongiurandone analoghi comportamenti.

Il sistema attuato dal sodalizio era semplice e abbastanza rozzo ma efficace: impiegare nel settore agricolo una squadra di “operai” in modo da percepire un compenso commisurato al lavoro svolto da detti soggetti, il lavoro veniva pagato “a cassetta”, quindi ad un maggior numero di braccianti impiegati, maggiore sarebbe stato il ricavo complessivo ottenuto dal sodalizio atteso che nulla sarebbe stato corrisposto al singolo lavoratore, sicché l’unico costo per il gruppo criminale sarebbe stato rappresentato dalle spese sostenute per garantire i mezzi di sussistenza agli operai.

Al fine di ottenere la massimizzazione dei guadagni il sodalizio doveva, quindi, contenere al minimo le spese di vitto e alloggio: a tale scopo venivano utilizzate (come si è già detto) abitazioni fatiscenti, cibo in scarsa quantità e di pessima qualità, vestiti prelevati dai rifiuti, limitata la somministrazione di energia elettrica anche quando il freddo notturno rendeva necessario l’uso di una stufa per riscaldarsi.

L’attività permetteva di identificare numerose vittime del traffico di esseri umani gestito dagli indagati (tredici, quattro delle quali minori) e veniva attestata la abilità degli associati nel gestire l’attività senza soluzione di continuità e con modalità altamente professionali, tali da consentire la massimizzazione dei profitti e la riduzione al minimo dei rischi, riorganizzandosi e rimodulando le proprie energie anche economiche in caso di necessità (in particolar modo in caso di fuga delle vittime o di controlli delle forze dell’ordine) ovvero occupandosi della gestione delle vittime attuando diverse modalità di controllo, l’isolamento e la loro eventuale utilizzazione in settori diversi da quello agricolo (in particolar modo lo sfruttamento sessuale per le giovani di sesso femminile e l’impiego in attività illecite degli operai di sesso maschile).

Le indagini consentivano di individuare anche altri cittadini romeni dediti al medesimo illecito traffico di esseri umani a fini di sfruttamento lavorativo di connazionali, operanti in autonomia rispetto al sodalizio investigato ma capaci di offrire e ricevere supporto dallo stesso in caso di necessità (soprattutto in caso di temporanea assenza del trafficante, gli altri indagati si offrivano di controllare le vittime, evitandone fughe o possibili contatti con le Forze dell’Ordine).

Tutte le vittime presenti sul territorio venivano collocate in protezione e prese in carico da una associazione antitratta specializzata nell’ambito della tratta di persone a scopo di sfruttamento lavorativo.

Il decreto di fermo veniva convalidato dal Gip di Ragusa  che, dopo aver applicato la misura cautelare in carcere a tutti i soggetti sottoposti a fermo, prontamente trasmetteva gli atti al Gip di Catania competente per materia: il Gip etneo oltre a rinnovare la misura cautelare già applicata, su richiesta di questa DDA applicava la misura custodiale in carcere anche per ulteriori ipotesi di traffico di esseri umani finalizzate allo sfruttamento lavorativo, frattanto ricostruite ed applicava altresì la misura anche nei confronti di un sesto indagato non ancora rintracciato sul territorio nazionale.