PALERMO – “Ricordando Falcone e Borsellino non stiamo semplicemente provando nostalgia. Riportare al cuore significa rimetterli in vita, sentendoli battere in noi. Nel profondo“.
Sono le parole del giornalista e scrittore campano Roberto Saviano, intervenuto sul palco dell’Ariston nel corso della terza serata del Festival di Sanremo 2022, per ricordare i giudici nel trentesimo anniversario della Strage di Capaci e della Strage di via d’Amelio.
Falcone e Borsellino nostra memoria collettiva
“La loro storia è parte della nostra memoria collettiva“, ha aggiunto Saviano, interrotto dagli applausi del pubblico. “La storia di Falcone e Borsellino è quella di chi sceglie pur sapendo di rischiare“.
“Ogni volta che le organizzazioni criminali uccidono, contano sul fatto che dopo qualche giorno già non se ne parla più, silenzio. Questo era sempre avvenuto prima delle stragi di Capaci e via d’Amelio“.
“Oggi eroi, ieri delegittimati”
“E questo pensava che sarebbe accaduto anche in quelle occasioni. E ne era convinta perché Falcone e Borsellino, durante la loro carriera, avevano subito il miglior alleato del silenzio: la delegittimazione, ossia screditare una persona ricoprendola di fango“, ha aggiunto Saviano.
“Oggi sono celebrati come eroi, ma prima non era così. Non riuscendo a essere all’altezza del loro coraggio, del loro talento e della loro forza, si preferiva affossarli. La delegittimazione – ha proseguito il giornalista – serviva a creare diffidenza tra chi era dalla loro parte. La mafia lo sapeva, ma il fango non è riuscito a sporcare il loro esempio“.
Il ricordo di Rita Atria
Durante il suo monologo, Saviano ha ricordato anche Rita Atria, la giovane testimone di giustizia morta suicida a 17 anni dopo la strage di via D’Amelio. “Rita Atria era figlia di un piccolo boss di Partanna ucciso quando lei era bambina, aveva perso anche suo fratello Fratello che voleva vendicare il padre“.
“Rita aveva compiuto una scelta diversa: denunciare ciò che sapeva di quella mafia, la stessa mafia che aveva ucciso il padre e il fratello. Era diventata la più giovane testimone d’Italia“.
Per Rita Atria, Paolo Borsellino “era una guida. Le aveva mostrato la possibilità di una vita lontana dal mondo in cui era stata la mafia a decidere come si dovesse vivere e morire. Per la prima volta aveva capito che si poteva sentire di scegliere chi amare, di curare il proprio corpo e di fare una passeggiata da sola“.
Rita “era felice di essersi liberata del suo passato e non vedeva l’ora di creare il suo futuro. Poi arrivò la strage di Via d’Amelio e 7 giorni dopo si tolse la vita. Borsellino era diventato come un padre, la sua morte la fece cadere nello sconforto“, ma raccontando quei meccanismi criminali “era stata una rivoluzione” e portò alla condanna di molti mafiosi.
“Semi che sono germogliati”
Le mafie “hanno creduto di seppellire Rita Atria, Falcone e Borsellino, ma loro erano semi che sono germogliati. Il seme che il loro coraggio ha messo dentro ognuno di noi può davvero diventare radice“.
Lo scrittore, infine, ha letto alcune righe di uno dei temi scritti al terzo anno di Alberghiero da Rita Atria sull’attentato di Falcone.
“Con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono più forti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici. Forse un mondo onesto non esisterà mai ma chi ci impedisce di sognare? Se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo“, le parole della giovane.