PALERMO – Ricorre oggi il ventiduesimo anniversario dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo che, vittima di una mafia crudele, è diventato il simbolo della lotta contro questo nemico, presente, ma silenzioso.
A 13 anni gli era stata tolta la vita perché figlio di un ex mafioso, divenuto collaboratore di giustizia. Nessun codice d’onore, nessuna pietà né commiserazione per lui. Così subito dopo averlo rapito, quel 23 novembre 1993, è stato ucciso l’11 gennaio dello stesso anno, in un maneggio di Altofonte.
Lo avevano portato via con l’inganno, lo avevano attirato travestiti da agenti della direzione investigativa antimafia; in questo modo alcuni scagnozzi di Giovanni Brusca, a quel tempo a capo del clan di San Giuseppe Jato, gli si erano presentati di fronte.
Sarebbe servito da esca per un ricatto che avrebbe dovuto costare il silenzio al padre Santino. Il pentito non doveva proprio parlare, doveva stare zitto; per questo gli inviavano foto e gli recapitavano biglietti, ogni sua parola sarebbe potuta essere pericolosa, avrebbe insomma potuto innescare quella bomba che fino a quel momento non era ancora esplosa. Di Matteo continuò comunque a collaborare con la giustizia e cercò sempre di rintracciare il figlio, quello stesso figlio che Brusca, condannato poi all’ergastolo, fece sciogliere nell’acido nitrico.
“L’atroce uccisione di Giuseppe Di Matteo – ricorda il Sindaco, Leoluca Orlando – è divenuta uno dei più importanti simboli della insanabile contrapposizione fra cultura mafiosa e cultura della vita e l’assurdità di voler attribuire ai mafiosi, indifferenti persino di fronte alla vita di un bambino innocente, un inesistente “codice” d’onore”.
“Abbiamo tutti il dovere, ciascuno secondo le proprie competenze e nel proprio ambito lavorativo e personale, di ricordare il piccolo Giuseppe e tenere sempre bene a mente la realtà perversa della barbarie mafiosa”.