Stupro di Palermo, di chi è la responsabilità? Analisi psicologica del ruolo genitoriale e della società

PALERMO – Lo stupro di gruppo avvenuto al Foro Italico di Palermo è sulla bocca di tutti. Di fronte a una ragazza 19enne violentata – da 7 coetanei – mentre implorava e urlava “Basta“, “Mi fate male“, non c’è giustificazione che tenga.

La società e il sistema educativo hanno fallito. E lo dobbiamo accettare, per ripartire e rivedere un paio di cose. Forse troppe.

Stupro di gruppo a Palermo: non c’è giustificazione

Le frasi del tipo “ma era ubriaca“, “ma lo voleva“, “ma era consenziente” non reggono. Ammesso – e non concesso – che la vittima fosse stata inizialmente d’accordo con questa che definirei “bravata” di gruppo (per non dire “squallore”, “brutalità” e “fallimento generalizzato”), al primo segnale di cedimento, il branco doveva – imperativo categorico – fermarsi.

Proseguire, accanirsi, tormentare perché “la carne è carne” fa solo rabbrividire, inorridire, un segnale che ci fa comprendere come la donna sia – purtroppo – un gradino in basso rispetto all’uomo che pensa di avere il potere di fare quello che vuole su di lei. Crede di essere in diritto di agire quasi come fosse un giocattolo tra le sue mani.

Ma è realmente così? Ovviamente no. Nessuna minigonna, nessun atteggiamento spinto giustifica le ferite lasciate dentro. Neppure la ragazza più “sveglia” del mondo “se l’è cercata“. O quella più ubriaca.

Perché quando si presenta una situazione del genere, con una 19enne su di giri, che ha bevuto troppo, l’unica cosa da fare è riportarla a casa. L’unica.

Lo stupro non ha niente a che vedere con il sesso

Viviamo in un mondo contrassegnato, anche, da queste atrocità. È stato doloroso apprenderlo, accettarlo e anche analizzarlo da un punto di vista psicologico, anche per noi ‘addetti ai lavori’. Un qualcosa che di umano ha veramente poco e che sconfina nello squallore!“. Inizia così la nostra analisi critica con la psicologa Ines Catania, intervenuta ai nostri microfoni.

Uno degli elementi utili da evidenziare è che lo stupro non ha niente a che vedere con il sesso. Infatti, abusi di questo tipo vanno ben oltre l’atto sessuale in sé e coinvolgono direttamente il desiderio di affermazione del potere da parte degli aggressori“, spiega.

Un senso di potere e controllo che deriva dalla volontà di umiliare e degradare la vittima. Un senso che rafforza il delirio di onnipotenza. E che deriva dalla sensazione di dominare ogni singolo centimetro della donna caduta nella loro rete“, prosegue.

Solo e soltanto il “” vuol dire sì.

E i genitori? Di chi è la responsabilità?

Adesso, dopo che la pagina di cronaca è stata scritta, è il momento della resa dei conti: in molti si chiedono se la scuola e le famiglie siano responsabili in qualche modo nelle falle dell’educazione dei giovanissimi.

Non parlo soltanto degli autori dello squallido accaduto e ripeto il termine ‘squallido’ per mettere in luce l’assenza di qualsivoglia caratteristica positiva dei soggetti in questione e la loro ‘miserabilità d’animo’. Ma anche dei genitori di questi ultimi“, afferma la psicologa.

Addirittura, “la madre di uno di loro etichettava la vittima come una ‘ragazza dai facili costumi‘. Quasi a voler normalizzare e giustificare l’accaduto. Come se il fatto di essere estroversa, disponibile ed esuberante (e questo resta discutibile), legittimasse una tale violenza“.

A livello profondo, non riguarda strettamente la vittima, ma gli autori del gesto, perché “soggetti così hanno cattiveria dentro, assenza di sentimenti, di empatia, di freni inibitori che in qualsiasi momento potrebbero ritorcere anche con i propri genitori“.

Serve più educazione

L’educazione di genere deve iniziare in famiglia.

Spiega la nostra intervistata: “Il comportamento dei ragazzi ha molto a che fare con ciò che apprendono in famiglia. E, secondo un’ottica sistemico- relazionale, nella maggior parte dei casi, si tende a ripetere ciò che si conosce, ciò che si vive durante lo sviluppo e la quotidianità“.

Se nel mio ‘schema’ familiare assisto a un’assenza di confini, di ruoli, di regole e viene normalizzato e giustificato qualsiasi gesto o comportamento improprio, non sarò mai portato a vivermi in toto le responsabilità e le conseguenze delle mie azioni“, sottolinea con fermezza.

Di contro, “in questo modo, anche i genitori, si sentono ‘sgravati’ da un immenso senso di fallimento, sia come persone, che come educatori. Perché, un genitore, che continua a nascondere le evidenze e a non ammettere l’atrocità di determinati gesti, è immaturo emotivamente, deresponsabillizzato e che non sa vivere il fallimento!“.

Un’emergenza sociale

“Il fallimento, in società ormai sorpassate, era uno sprone al miglioramento. Oggi no: viene visto come limitazione personale, come fardello insopportabile da portarsi dietro“, dichiara la psicologa.

Non si tratta solo di un problema genitoriale. La questione è ancora più macroscopica: è un’emergenza sociale.

Ma c’è ancora di più: “Come accennavo prima, si assiste a un’assenza di confini: si è pronti a normalizzare un folle gesto, piuttosto che normalizzare un sentimento, una sofferenza per qualcosa che finisce, per qualcuno che non c’è più etc. Come se la sofferenza, il fallimento, il dolore non dovessero più esistere! Ma le cattive azioni sì!“.

Si è persa totalmente la coscienza morale: “Mi ricollego un attimo a una frase del filosofo Gianfranco Ravasi:

<<Una volta si sentiva spesso la frase: “Ma lei non si vergogna?“. Oggi non si sente più. Probabilmente perché la risposta sarebbe: “Ma è ovvio che non mi vergogno. Perché mai dovrei vergognarmi?“. Vergogna è una parola scomparsa”. La vergogna è il sentimento che si prova quando si sa di aver compiuto un atto che la coscienza morale condanna>>.

Anzi, si è arrivati al punto di tacitare ogni rimorso mentendo spudoratamente, prima in pubblico, poi a sé stessi.

Mettersi in gioco per migliorare

La psicologa Ines Catania aggiunge: “È questo che inviterei a fare ai genitori di oggi e a tutti in generale: chiedersi veramente cosa vogliano, come ottenerlo e senza sfuggire dalle sofferenze e dai fallimenti. Guardarsi dentro. Accogliere e ‘ristrutturare’. Mettersi in gioco per contribuire, con la propria parte, a rendere una società migliore. Affidandosi anche agli specialisti del settore, laddove ci si accorga di non riuscire“.

Il benessere di ciò che mi circonda contribuisce al mio, a quello dei miei figli, dei miei genitori, delle persone care. E se veramente non si tollera più il fallimento non dovrebbero essere proprio queste le buone azioni da cui partire? E non si tratta di utopia, perché come si investe tempo ed energia in comportamenti ‘socialmente disadattivi‘, la stessa energia si può impiegare in comportamenti socialmente adeguati e proattivi con risultati di gran lunga più gratificanti!“, conclude.

Riflettiamo, tutti insieme. Stavolta sul serio.