PALERMO – “Eravamo cento cani sopra una gatta“, queste le agghiaccianti parole usate da alcuni degli indagati all’indomani dello stupro a Palermo. “Mi sono schifato ma la carne è carne“, ha commentato poi uno di loro.
La “carne” in questione è una ragazza. Diciannove anni. Una vita davanti che, da quella notte maledetta, non sarà più la stessa. Un fardello di cui nessuno, anche volendo, potrà mai farsi carico al posto suo.
Quelli che dovrebbero solo essere momenti da dimenticare, si continueranno a ripresentare nella mente della vittima. È inevitabile. Anche quando lotterà contro se stessa per sfoggiare il suo sorriso migliore. Quando nella sua testa si affolleranno una serie di domande, a cui non riuscirà a trovare una risposta. Eppure una risposta c’è. E risiede nei valori intrinsechi di una società che non conosce guarigione da questo fallocentrismo.
Dall’inspiegabile desiderio di dimostrare la propria “superiorità” su una donna, privata della sua dignità per diventare un oggetto qualsiasi, un mezzo per esercitare il proprio “potere”. Per far capire chi comanda. Per mostrarsi forti in mezzo al branco, essendo deboli come individui.
“Proteggi tua figlia, anzi no… educa tuo figlio”
La vera risposta a eventi tanto drammatici in molti casi risiede proprio nelle famiglie: piuttosto che proteggere la figlia, i genitori dovrebbero preoccuparsi di educare il figlio. Solo così si potrebbe arginare, almeno in parte, la cultura tipica di una società patriarcale che invita le ragazze a fare attenzione, a non vestirsi troppo scollate, a non uscire da sole perché “quelli di oggi sono brutti tempi“, ma allo stesso tempo esorta il figlio ad andare a caccia di “prede“, come se una donna fosse solo questo. Una preda. Da sbranare e da lasciare lì, come un oggetto usato, che una volta consumato non serve più. Un bersaglio. La figurina mancante da aggiungere alla propria collezione.
Lo stupratore “non è malato, è figlio sano del patriarcato“
I presunti stupratori della ragazza, precisiamolo, non sono dei mostri. Non sono alieni. Dire che sono diversi da noi non farebbe che giustificarli. Fornirebbe loro un’attenuante.
A rendere ancora più allarmante e deplorevole il loro gesto è il fatto che si tratti di persone comuni. Ragazzi come tanti. Esattamente come quelli che ciascuno di noi vede all’uscita di una scuola o all’ingresso di una discoteca, magari la stessa frequentata da vostra figlia. Ragazzi, per usare un termine molto inflazionato, “normali”. Magari come quelli che adesso invocano pene esemplari per gli aggressori.
Lo stupratore “non è malato, è figlio sano del patriarcato” come recitano gli striscioni delle manifestazioni di questi giorni. È frutto di una incultura che permea diversi settori della società, quasi tutti a dire il vero, spesso, anche quelli educativi e formativi.
Cultura ed educazione. Questo trasforma la prevaricazione in rispetto, la violenza in dialogo, la “carne” in donna.