PALERMO – “L’ho mandato a chi dovevo“, ha comunicato via chat uno degli indagati facendo riferimento al video registrato con il cellulare durante lo stupro di Palermo. Un’espressione che non lascia dubbi sulle intenzioni dei giovani coinvolti nella violenza.
Il filmato può essere stato realizzato come motivo di vanto o forse come “merce” da offrire in cambio di denaro, ma in ogni caso è incredibile come l’essere umano non rinunci mai a immortalare il momento, nemmeno di fronte a un gesto tanto atroce.
Non meno preoccupante la maniacale ricerca del video della violenza, a quanto pare “promesso” su Telegram da alcuni utenti intenzionati a sfruttare il forte impatto mediatico provocato dalla notizia. Di recente sono stati appositamente creati dei gruppi social che vantano diverse migliaia di membri, pronti ad assistere a una testimonianza di estrema violenza.
Proprio per approfondire il ruolo dei social in questa raccapricciante vicenda, la psicologa Valentina La Rosa ha fornito ai microfoni di NewSicilia una dettagliata panoramica della situazione.
In un primo momento l’esperta ha spiegato le ragioni per cui, anche in situazioni tanto sconcertanti, si sente l’inspiegabile bisogno di lasciare una prova tangibile del reato di cui ci si macchia. Rispondendo poi ad alcune domande, la dottoressa ha anche chiarito le possibili cause dell’insistente ricerca del video. Nella parte finale dell’intervista si è focalizzata invece sui motivi che avrebbero portato alla creazione di profili fake con il nome degli indagati.
“I fatti di Palermo ci pongono di fronte alla brutalità di un atto che, oltre a rappresentare un terribile caso di violenza di genere, è anche purtroppo la punta dell’iceberg della deriva sociale e culturale a cui sta andando incontro la civiltà contemporanea“.
“Quest’ultimo aspetto, in particolare, è molto evidente nell’impatto mediatico che questo caso ha avuto sui principali organi di informazione e soprattutto sui social media, aprendo uno squarcio nel mondo sommerso del web in cui trovano sfogo le pulsioni più primordiali dell’essere umano“.
“Gli autori dello stupro di Palermo hanno ripreso i terribili momenti in cui la vittima veniva crudelmente abusata al solo scopo di condividere le immagini e farne motivo di affermazione di quella che diversi studiosi definiscono ‘mascolinità tossica‘“, spiega la dottoressa.
“Da un lato, potremmo leggere questo comportamento come una sorta di estrema dissociazione dalla realtà: in un mondo dominato dai social media e dalla tecnologia, per certi soggetti rivedersi su uno schermo è quasi un modo per creare una distanza rispetto alla realtà dei propri atti. Questa distanza può attenuare, almeno temporaneamente, la gravità morale delle loro azioni ai loro occhi“.
“Dall’altro lato, tuttavia, non possiamo trascurare il fatto che lo stupro di Palermo è il prodotto di una cultura in cui la donna è considerata un oggetto che permette di validare l’identità e il potere del maschio all’interno del proprio gruppo sociale“.
“In questo senso, condividere questo terribile atto di violenza può essere visto come un modo per ottenere validazione o potere all’interno del proprio gruppo sociale. Mostrare un atto così brutale può essere interpretato, in modo distorto, come un segno di dominanza o forza“.
“Gli eventi che si sono susseguiti dopo che la vicenda di Palermo è diventata di dominio pubblico sono l’espressione di quella che gli esperti hanno definito ‘pornografia dell’informazione e dell’immagine‘. A partire dai media dell’informazione, soprattutto nel racconto dei casi di cronaca nera come femminicidi e violenza sulle donne, vengono raccontati i dettagli più intimi e cruenti, creando una vera e propria ‘pornografia del dolore‘“.
“Chi negli ultimi giorni ha cercato in maniera maniacale su Telegram il video della vittima ha voluto soddisfare una curiosità morbosa che può derivare dal desiderio di vivere emozioni forti, anche se negative, o da un bisogno di confrontarsi con la realtà cruda della vita“.
“Inoltre, questo comportamento può essere considerato il prodotto della società contemporanea in cui il rapporto con l’altro è sempre più mercificato e le esperienze e i corpi sono consumati proprio come si fa con gli oggetti, riprendendo un recente testo di Stefano Davide Bettera dal titolo ‘La pornografia dell’essere’“.
“In quel video, la vittima che sta dall’altra parte dello schermo del computer o dello smartphone, diventa un oggetto di godimento e viene ridotta a una merce di consumo, senza alcuna possibilità di vivere il suo dolore. Si tratta di una violenza nella violenza che rende ancora più pesante il trauma subito dalla vittima“.
“La creazione di account fake con i nomi degli indagati rappresenta un fatto inedito rispetto ad altri recenti casi di cronaca che deve spingere tutti noi a una profonda riflessione, soprattutto per quanto riguarda l’educazione affettiva e l’uso responsabile dei social media da parte dei nostri adolescenti e giovani“.
“Infatti, il fatto che i nomi dei ragazzi che si sono macchiati di questo orribile crimine così come quello della vittima siano diventati di dominio pubblico, ha eliminato anche la seppur minima traccia di riserbo su un fatto che viola in modo così terribile la sfera intima della persona, dando in pasto gli stupratori ma soprattutto la vittima all’opinione pubblica e alla massa informe e indefinita dei social network“.
“Come già detto prima, in un mondo digitalizzato come il nostro, l’attenzione è una valuta. Creare account fake può portare a un aumento temporaneo dell’attenzione, likes o followers, indipendentemente dalle conseguenze negative per le persone coinvolte. Anche in questo caso, non c’è alcuna forma di empatia o considerazione per il dolore della vittima, ma un utilizzo desoggettivato del canale social per ottenere una forma di riconoscimento della propria identità attraverso lo strumento fittizio dei social network“, ha chiarito la psicologa.
“Per questi motivi – conclude la psicologa – è fondamentale che l’educazione all’affettività e all’uso responsabile del web inizi sin dai primi anni di scuola per promuovere il riconoscimento dell’altro come soggetto e non come oggetto da utilizzare per soddisfare i propri bisogni e ottenere un’affermazione della propria identità“.
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