Paolo Borsellino, i 57 giorni sulla “giostra impazzita” prima di via D’Amelio

Paolo Borsellino, i 57 giorni sulla “giostra impazzita” prima di via D’Amelio

PALERMO – Il tempo accelera improvvisamente per Paolo Borsellino il 23 maggio del 1992. La morte di Giovanni Falcone per il giudice non rappresenta solo la scomparsa improvvisa e tragica del collega e amico di una vita, ma porta con sé anche la consapevolezza della propria condanna a morte. Lo dice chiaramente ai colleghi, ai quali annuncia: “Sappiate che questo è anche il nostro destino“.

Una frase pronunciata da un uomo d’un tratto indurito, chiuso, che si isola persino da parenti e amici, che allontana per “prepararli” all’inevitabile distacco. Non può più essere quello di prima Borsellino, non dopo che Falcone è spirato tra le sue braccia. Il magistrato si getta a capofitto nelle indagini; trovare i responsabili della strage di Capaci e fare luce sulle cause dietro l’attentato diventa un’urgenza primaria. Come testimoniano le sue parole: “Non ho tempo da perdere, devo lavorare, devo lavorare. È una corsa contro il tempo, per arrivare alla verità prima di essere fermato“.

Difficile immaginare il dolore provato in quei giorni, ma la determinazione che lo spinge a lavorare senza sosta è sotto gli occhi di tutti.

I 57 giorni, i più difficili di Paolo Borsellino

I 57 giorni che lo separano dal proprio destino sono i più difficili per Borsellino. E scorrono via inesorabili, di fretta, troppa fretta, come una giostra impazzita. Dopo la morte di Falcone, infatti, Borsellino agli occhi dell’opinione pubblica appare come l’unico e ultimo baluardo della lotta alla mafia, rimasto solitario protagonista di una stagione fatta di grandi successi e brucianti sconfitte.

Ha visto morire amici e colleghi che si erano spesi fino al sacrificio massimo per lo Stato. Un attentato contro di lui appare ogni giorno più inevitabile. Lo sa anche il figlio Manfredi, oggi a capo del commissariato di Mondello (a Palermo), che anni dopo, in una lettera rivolta al genitore, dirà: “Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega e amico fraterno di mio padre, ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua“.

La strage di via D’Amelio

Tutti sanno che Borsellino sarà il prossimo obiettivo di Cosa nostra. Eppure nulla viene fatto per proteggerlo a dovere proprio dove perderà la vita. Via Mariano D’Amelio è considerata dagli agenti della scorta una strada pericolosa perché stretta, tanto da chiedere alle autorità di Palermo di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa dove abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino, madre e sorella del magistrato. Una richiesta che resta senza seguito.

Paolo Borsellino perse la vita nella strage di via D'Amelio

Fonte foto: wikipedia.it

Borsellino incontra, dunque, il proprio destino alle ore 16,58 di domenica 19 luglio 1992. Davanti al civico 21 di via D’Amelio, la deflagrazione di una Fiat 126 rubata, imbottita con 90 chili di esplosivo telecomandati a distanza, uccide il magistrato e i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio) e Claudio Traina. Unico sopravvissuto il poliziotto Antonino Vullo, che si risveglia in ospedale, in gravi condizioni. Si salva perché ancora alla guida, intento a fare manovra per posteggiare l’auto alla testa del corteo. È lui che racconta l’inferno provocato dalla bomba: “Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto“.

Le auto bruciano e provocano colonne dense di fumo nero, i proiettili esplodono per il calore della detonazione, la gente urla. L’agenda rossa di Borsellino, scatola nera delle indagini e dei misteri sui quali stava lavorando, scompare nel caos di quegli istanti, ma per 15 anni non diventa argomento di indagine.

I depistaggi

Da lì in poi (ma forse non è poi così insensato pensare che abbiano avuto inizio prima), i depistaggi si susseguono per anni. Le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater, prodotte dai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta, consacrano la vicenda come “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana“.

E chissà che non ne fosse cosciente lo stesso Borsellino, di quanto sarebbe successo anche a livello processuale, quando profeticamente aveva detto: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri“.

Paolo Borsellino, una vita esemplare

A sintetizzare la carriera e l’impegno nella lotta a Cosa nostra di Paolo Borsellino bastano le parole pronunciate dallo stesso magistrato: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno“. Non poteva esserci, dunque, altra scelta per il giudice gentiluomo se non quella di prendere posizione e di agire. Come ha dimostrato fattivamente con le sue azioni, senza mai tirarsi indietro, nemmeno davanti alla paura.

Una vita esemplare spesa al servizio dello Stato, che ha ancora tutto da insegnare e il cui ricordo va celebrato. Senza parole consunte e consumate, ma traslando quelle lezioni nel vivere quotidiano. A partire da una delle più fondamentali: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene“.

Fonte immagine di copertina: Twitter – Che Tempo Che Fa