PALERMO – Nove sicari e oltre 200 colpi di kalashnikov. Tanti ne ha adoperati Cosa nostra per uccidere Ninni Cassarà e Roberto Antiochia il 6 agosto del 1985, a soli nove giorni di distanza dall’assassinio di Beppe Montana. Tre agenti della Polizia di Stato, tre colleghi, tre amici fraterni. Traditi da una talpa.
Lotta a Cosa nostra
Quando Antonio Cassarà, detto Ninni, si reca sul molo di Porticello, a Santa Flavia, in seguito alla notizia dell’uccisione del commissario Montana, non appena ne vede il corpo esanime capisce di essere il prossimo nome che i boss intendono spuntare dalla lista di nemici che hanno idealmente stilato. E che non si fermeranno: “Convinciamoci che siamo morti che camminano“.
Montana e Cassarà (braccio operativo di Giovanni Falcone) avevano lavorato a stretto contatto, prendendo parte insieme alla nota operazione “Pizza Connection“, che con l’aiuto dell’FBI aveva ricostruito i rapporti tra la mafia siciliana e quella “importata” negli USA.
A Ninni Cassarà si deve, inoltre, il “rapporto dei 162“, il documento che per la prima volta ha svelato l’organigramma di Cosa nostra, redatto anche grazie alle prime dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia. Un lavoro senza precedenti che ha gettato le basi per l’istruzione del maxiprocesso, considerata ad oggi l’unica vera vittoria dello Stato contro la mafia.
L’uccisione di Ninni Cassarà e Roberto Antiochia
Quel 6 agosto di 35 anni fa, intorno alle ore 15,30, il vicequestore Cassarà, capo della sezione investigativa della Squadra mobile di Palermo, stava rientrando a casa per il pranzo, al civico 81 di via Croce Rossa, scortato da un’Alfetta blindata e accompagnato da tre agenti: Roberto Antiochia, Natale Mondo e Giovanni Salvatore Lercara.
Antiochia scende dall’auto per aprire lo sportello al suo commissario ed è in quel momento che si scatena la pioggia di proiettili che arriva dallo stabile di fronte all’abitazione di Cassarà, dove i sicari aprono il fuoco. Antiochia, a soli 23 anni, muore cercando di proteggere l’amico. Lercara resta ferito; illeso, invece Mondo, che trova rifugio sotto la vettura crivellata di colpi (cadrà anche lui per mano mafiosa il 14 gennaio 1988). Cassarà, gravemente ferito, si trascina fino alle scale della propria abitazione, dove muore tra le braccia della moglie Laura, che ha sceso le scale di corsa, chiedendo in lacrime disperatamente aiuto ai vicini.
C’è una foto in bianco e nero che racchiude il dolore composto della moglie del commissario subito dopo l’efferato eccidio: immortala Laura Iacovoni Cassarà che sola, seduta sugli scalini, guarda il vicino corpo ormai privo di vita del marito. Ninni Cassarà, tenace investigatore e leader carismatico, era padre di tre figli: è morto a 38 anni.
Antiochia non si sarebbe dovuto trovare lì. Dopo aver lavorato fianco a fianco con Beppe Montana e Ninni Cassarà, aveva fatto ritorno nella sua Roma, dove quell’estate era stato trasferito e si trovava in ferie. In seguito all’omicidio di Montana, però, era rientrato in Sicilia per partecipare ai funerali dell’amico e aiutare gli ex colleghi nelle indagini. Era consapevole dei rischi ai quali andava incontro, ma aveva deciso di farsi assegnare alla scorta di Cassarà. “Darei la vita per Ninni“, aveva detto. E così, purtroppo, è stato.
A tradirli e condannarli a morte, come verrà accertato anni dopo nel corso delle indagini legate anche all’assassinio di Beppe Montana, fu una talpa che lavorava nella Questura di Palermo.
Cassarà e Antiochia: medaglie d’oro al valor civile
Erano anni estremamente difficili quelli in cui si sono trovati a operare Montana, Antiochia, Cassarà e i loro colleghi. Anni in cui si combatteva contro un nemico ancora in gran parte sconosciuto, Cosa nostra, con pochi uomini mandati allo sbaraglio e scarsi mezzi, facendo leva solo sulla propria integrità e sull’amore per il lavoro, per lo Stato e per la giustizia. Quei valori così fortemente osteggiati dalla mafia che, infatti, in pochi anni, assassinerà oltre mille persone che li avevano incarnati.
Ad unire una volta di più Montana, Cassarà e Antiochia, ci sono le tre medaglie d’oro al valor civile con le quali sono stati insigniti dopo la loro morte. Tre uomini, loro sì, veramente d’onore. Legati anche nel sacrificio.