PALERMO – Uomini d’onore. Onorata società. Codice d’onore. I riferimenti all’integrità e alla rispettabilità di Cosa nostra e dei suoi membri sono costanti nel gergo mafioso. Onore è la parola che ricorre più spesso, come un tarlo, un chiodo fisso. Una patente di integrità da vendere al mondo, ai nemici, alla società che vogliono affascinare e controllare.
La mafia non è solo un’organizzazione criminale, a suo modo è anche una cultura, un linguaggio, un costume. Si è appropriata di termini che indicano valori positivi – come famiglia, onore e dignità – e li ha caricati di significati diametralmente opposti per dominare con prepotenza, asservimento e disprezzo. Un inganno, una stortura, come dimostra la secolare storia di atrocità e infamia di Cosa nostra.
La storia di Giuseppe Di Matteo
Un esempio su tutti. Secondo una delle leggi non scritte della mafia, donne e bambini non si toccano. Un falso clamoroso. Le cronache, infatti, si sono troppo spesso riempite di orribili crimini commessi da mani mafiose che non hanno certo tenuto conto dell’età e del sesso delle vittime.
Lo dimostra anche l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino. Rapito, strangolato e sciolto nell’acido a pochi giorni dal suo quindicesimo compleanno.
Giuseppe era nato il 19 gennaio 1981 a Palermo. Era un ragazzino come tanti, aveva una passione per i cavalli e amava cavalcare. Suo padre, detto “Mezzanasca”, aveva intrattenuto stretti rapporti con il boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca. Era stato arrestato il 4 giugno 1993 con l’accusa di aver eseguito vari omicidi.
Poco dopo essere finito in cella, Santino Di Matteo aveva deciso di collaborare con la giustizia. Grazie alle sue dichiarazioni le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio erano arrivate a una svolta. Aveva, infatti, fatto i nomi di boss e uomini d’onore coinvolti nei due attentati. Per Cosa nostra era diventato un pericolo e andava messo a tacere.
Il rapimento e la vendetta
Giovanni Brusca era stato così incaricato di rapirne il figlio. Il 23 novembre 1993, quattro uomini del clan dei corleonesi, travestiti da poliziotti, su ordine dell’allora latitante Brusca avevano raggiunto Giuseppe nel maneggio di Altofonte che era solito frequentare e lo avevano portato via. Lo avrebbero condotto dal padre, in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia: questa la scusa con la quale avevano convinto il 12enne a seguirli. “Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi”, ha dichiarato Gaspare Spatuzza, affiliato alla “famiglia” di Brancaccio che ha preso parte al sequestro: “Lui era felice, diceva ‘Papà mio, amore mio’”.
La speranza di Giuseppe, però, si era presto trasformata in tormento. Legato, era stato condotto in un bunker adibito alla sua prigionia, il primo di una lunga serie.
Qualche giorno dopo la famiglia aveva cominciato a ricevere biglietti minatori e le foto del 12enne imprigionato. Il messaggio era chiaro: o Santino cessava di collaborare con la magistratura, o Giuseppe sarebbe morto.
Angosciato per le sorti del figlio, dopo un momento di ripensamento in cui aveva cercato di rintracciarlo e avviare una trattativa in virtù dell’antico legame con Brusca, “Mezzanasca” aveva deciso di continuare a rendere dichiarazioni e raccontare ciò che sapeva di Cosa nostra e dei crimini commessi dall’”onorata società”. La famiglia aveva quindi denunciato alle forze dell’ordine il rapimento del 12enne. Poco dopo la notizia era diventata di dominio pubblico.
Nel frattempo il bambino, incatenato e sottoposto a sevizie, era stato trasferito in varie località delle province di Palermo, Trapani e Agrigento, grazie anche all’aiuto chiesto da Brusca a Matteo Messina Denaro.
Strangolato e sciolto nell’acido
A più di due anni di distanza dal rapimento, la situazione era rapidamente e tragicamente precipitata il giorno in cui la Corte d’Assise di Palermo aveva condannato Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina e affiliato ai corleonesi) e Brusca quali esecutori materiali dell’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo. Condanna raggiunta proprio grazie ai resoconti forniti alle autorità da Santino Di Matteo.
Alla notizia della sentenza Brusca, detto “u verru” (il porco) era andato su tutte le furie e aveva dato l’ordine di uccidere Giuseppe. La ferocia di quella decisione e della sua esecuzione testimoniano che anche l’altro soprannome col quale è noto è appropriato: lo “scannacristiani”.
A eseguire materialmente l’omicidio, dopo 779 giorni di prigionia, sono stati Vincenzo Chiodo, Giuseppe Monticciolo ed Enzo Brusca. L’11 gennaio 1996 Giuseppe Di Matteo è stato strangolato. Il suo corpo non è mai stato ritrovato perché sciolto in una vasca di acido nitrico.
Chiodo e Monticciolo, diventati collaboratori di giustizia dopo l’arresto, hanno ricostruito nei dettagli il racconto dell’atroce omicidio e della soppressione del cadavere.
La testimonianza di Vincenzo Chiodo sull’omicidio di Giuseppe Di Matteo
All’udienza del 28 luglio 1998 Chiodo ha fornito l’agghiacciante resoconto: “Ho detto al bambino di mettersi in un angolo cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, in un angolo con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io gli ho detto, si è messo di fronte il muro, diciamo, a faccia al muro. Io ci sono andato da dietro, ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia, ndr) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva.
Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino giù e Monticciolo si stava avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’, rivolto al bambino, ‘tuo papà ha fatto il cornuto’. Nello stesso momento o subito dopo Enzo Brusca dice ‘ti dovevo guardare meglio degli occhi miei’, dice, ‘eppure chi lo doveva dire?’”.
Una violenza spaventosa alla quale, secondo quanto raccontato da Chiodo, Giuseppe Di Matteo ha reagito così: “Il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione più di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente… non lo so, mancanza di libertà, […] il bambino penso che non ha capito niente, neanche lui ha capito, dice: sto morendo, penso non l’abbia neanche capito”.
La soppressione del cadavere
Un’efferatezza che è proseguita anche dopo, quando il suo corpo ormai privo di vita è stato messo in una vasca per essere eliminato: “[…] l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. Andando sopra abbiamo lasciato il tappo del tunnel socchiuso per fare uscire il vapore dell’acido che usciva… Quando siamo saliti sopra Enzo Brusca e Monticciolo mi hanno baciato, dicendo che mi ero comportato… come se mi avessero fatto gli auguri di Natale o chissà… complimentandosi per come mi ero comportato… […] Poi dopo un po’ Enzo Brusca mi dice ‘vai sopra, vai a guardare che cosa c’è, se funziona l’acido, se va bene o meno’”.
Chiodo ha anche riferito di non aver provato alcun tipo di emozione in quel momento e ha proseguito il macabro racconto: “Io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare con un bastone e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido… era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a letto a dormire, abbiamo dormito lì”.
Il corpo di Giuseppe, l’indomani mattina, era ormai interamente liquefatto.
Le condanne
Per quell’atroce orrore Giovanni Brusca, arrestato pochi mesi più tardi, il 20 maggio 1996, è stato condannato all’ergastolo. Stessa sentenza anche per Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Francesco Giuliano, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno e Matteo Messina Denaro (ancora latitante). Vent’anni di reclusione, invece, per Monticciolo. Trenta per Enzo Brusca. Ventuno per Chiodo e dodici per Gaspare Spatuzza.
Il 22 luglio 2018 il Tribunale Civile di Palermo ha condannato i sanguinari macellai di Cosa nostra a un risarcimento di 2,2 milioni di euro da versare alla mamma del bimbo, Francesca Castellese, e al fratello più piccolo, Nicola. Il risarcimento addebitato ai boss, non disponendo di beni (che sono stati sequestrati), sarà saldato grazie al fondo speciale dello Stato per le vittime di mafia.