Cronaca

Carlo Alberto Dalla Chiesa: abbandonato dallo Stato, amato dal popolo

PALERMO –Qui è morta la speranza dei palermitani onesti“. È la frase vergata da una mano anonima in via Isidoro Carini all’indomani dell’agguato mafioso in cui morirono il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro, e venne ferito l’agente Domenico Russo (deceduto 12 giorni dopo in ospedale).

La strage di via Carini

Alle 21,15 del 3 settembre 1982 l’Autobianchi A112 guidata dalla moglie del prefetto venne affiancata da una Bmw 518, dalla quale partirono alcune raffiche di kalashnikov AK-47 che uccisero i due coniugi. Nello stesso momento, l’Alfetta con a bordo l’autista e poliziotto della scorta che seguiva l’auto del generale, venne avvicinata da una moto, dalla quale furono esplosi i colpi che ferirono gravemente l’agente.

Domenico Russo, poliziotto Fonte foto: Wikipedia

Il prefetto di Palermo venne ritrovato abbracciato alla moglie: il suo ultimo gesto fu quello di farle da scudo. Un tentativo vano perché Emanuela Setti Carraro venne colpita per prima e contro di lei fu esploso anche un colpo di grazia alla testa. Avrebbe compiuto 32 anni il mese successivo.

Mentre si consumava l’efferato delitto, a Villa Pajno, la residenza di Dalla Chiesa, qualcuno, con la scusa (poco credibile, sicuramente inedita) di recuperare un lenzuolo col quale coprire i corpi ancora caldi delle vittime, riuscì a entrare nell’alloggio privato e a svuotare la cassaforte nella quale il generale custodiva importanti e vitali documenti delle indagini che stava seguendo. Sparirono così i dossier sui casi più impenetrabili della storia italiana, come quello sul sequestro di Aldo Moro.

È prassi della storia di questo Paese: in ogni delitto eccellente c’è sempre qualcosa che sparisce, trafugata con nemmeno troppa discrezione da una solerte manina che entra in azione con precisione cronometrica. Mani non propriamente mafiose, non per affiliazione almeno, ma che spesso hanno stretto vigorose e per reciproco interesse quelle dei padrini.

Carlo Alberto Dalla Chiesa e la Sicilia

Dalla Chiesa conosceva bene Cosa nostra: “Un mafioso è chi lucra per avere prestigio e poi goderne in tutti i settori. E chi lucra è anche capace di uccidere“. Nato a Saluzzo il 27 settembre 1920, figlio di un generale dei carabinieri, entrò nell’Arma durante il secondo conflitto mondiale e prese parte alla Resistenza. Combatté successivamente il banditismo, prima in Campania e poi in Sicilia, dove giunse nel 1949: sue furono le indagini sull’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto che portarono all’incriminazione del boss Luciano Liggio. Nell’Isola ritornò ancora, dal 1966 al 1973, con il grado di colonnello, per reggere il comando della Legione carabinieri di Palermo.

Infine, dopo aver contrastato con successo le Brigate Rosse (dando vita al Nucleo Speciale Antiterrorismo), nel 1982, ormai vicecomandante generale dell’Arma dei carabinieri, Dalla Chiesa venne nominato prefetto di Palermo con l’obiettivo di arginare Cosa nostra. Aveva accettato dopo la promessa, da parte del governo Spadolini, di ricevere poteri speciali e mezzi adatti al difficile scopo. Nominato il 6 aprile, il generale riuscì a insediarsi solo il 30, il giorno dell’uccisione del segretario regionale e deputato del PCI Pio La Torre.

Si mise immediatamente al lavoro e i risultati arrivarono ben presto. A giugno inviò il rapporto dei 162, una vera e propria mappa del crimine organizzato che vedeva al vertice i Greco di Ciaculli, i Corleonesi e il clan di Corso dei Mille. Eliminati, invece, gli sconfitti della seconda guerra di mafia: Inzerillo, Badalamenti, Bontade e Buscetta.

L’isolamento a Palermo

Sin da subito, però, il generale comprese che le eccezionali promesse fattegli sarebbero rimaste tali. E seppe che i tentacoli della piovra si erano già mossi per isolarlo, per accerchiarlo ancor prima che il suo delitto venisse deciso e pianificato.

Intorno a lui era calato il silenzio e la solitudine. Non aveva paura Dalla Chiesa, ma sapeva. Conosceva la mafia, era consapevole che fosse interna alla società, allo Stato e che proprio parte di quest’ultimo, un pezzo di apparato burocratico col cuore nero, potesse rivelarsi il suo principale e sordo nemico.

Nell’estate del 1982 a Palermo il sangue scorreva copioso: solo in quei torridi mesi si verificarono 52 omicidi e 20 lupare bianche. E Dalla Chiesa era giorno dopo giorno sempre più abbandonato, sempre più isolato. Reagì. Convocò il giornalista Giorgio Bocca con il preciso obiettivo di rilasciare un’intervista nella quale fosse messo nero su bianco in che condizioni si trovasse a operare. Pubblicata il 10 agosto, si trasformò in una sorta di testamento spirituale. Al cronista confessò: “Sono solo. Negli anni di piombo avevo dietro di me il favore, l’attenzione dell’Italia che conta. […] Io so perché sono stati uccisi La Torre, Mattarella, Costa, vittime ‘eccellenti’. Perché attorno a loro si era fatto il vuoto, perché erano isolati. Ecco perché l’ho chiamata. Mi dia una mano per uscire dall’isolamento“. Non bastò.

“L’operazione Carlo Alberto”

A fine agosto una telefonata anonima ai carabinieri di Palermo annunciò per la prima volta l’attentato al generale: “L’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa“. A portarla a termine furono i 30 colpi di kalashnikov esplosi la sera del 3 settembre. Due giorni dopo un’altra telefonata anonima, stavolta al quotidiano La Sicilia, comunicò: “L’operazione Carlo Alberto è conclusa“.

Palermo, intanto, era insorta: il 4 settembre, giorno dei funerali celebrati in tutta fretta (circa 18 ore dopo la strage) nella chiesa di San Domenico, la folla si scagliò contro i rappresentati del mondo politico, accusati a gran voce di aver lasciato solo il generale. Insulti e monetine piovvero da tutte le parti. Solo il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, venne risparmiato dalla contestazione. La gente comune aveva capito che Dalla Chiesa era davvero dalla sua parte, lo aveva dimostrato pronunciando una semplice frase: “Gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati“.

Carlo Alberto Dalla Chiesa, un uomo dello Stato

Era un combattente con un grande senso di responsabilità Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un uomo dello Stato per il quale non si corre il rischio di fare sfoggio di retorica nel definirlo così. Investigatore preparato e puntiglioso e abile comunicatore: rifletteva a lungo e soppesava le parole, pronunciate poi con voce graffiante e piglio militaresco.

Per poco più di cento giorni è stato prefetto di Palermo, tanti ne sono bastati per immergersi nei veleni della città, ma sarebbe limitato dire che furono quelli a ucciderlo. Ancor meno, appena 54, sono stati i giorni che ha potuto condividere al fianco della moglie Emanuela Setti Carraro, sposata in seconde nozze il 10 luglio.

Emanuela Setti Carraro
Fonte foto: Wikipedia

È stato insignito con la medaglia d’oro al valor civile per aver sublimato “con il proprio sacrificio una vita dedicata, con eccelso senso del dovere, al servizio delle Istituzioni, vittima dell’odio implacabile e della violenza di quanti voleva combattere“.

Le condanne per la strage di via Carini

Per gli omicidi di via Carini, in qualità di mandanti, sono stati condannati all’ergastolo: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Condannati anche gli esecutori materiali: Vincenzo Galatolo, Antonino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Sentenze che racchiudono solo una parte della storia, la più manifesta e conveniente.

Aurora Circia'

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