PALERMO – È un giorno come tanti altri. Ti svegli la mattina presto, magari è una bella giornata, ti prepari per andare a lavoro. Passi prima da quel bar, il Lux, quello dove vai sempre a berti un caffè e fare colazione. Sei lì, leggi il giornale, scambi due chiacchiere, poi paghi e subito dopo il buio.
La calma vita delle persone intorno a te, intanto, viene frastornata da un fortissimo boato. Fischiano le orecchie, non si capisce bene cosa sia successo, ma attorno al tuo corpo esanime si inizia a formare un capannone di persone. “Chiamate un’ambulanza”, gente che urla, gente che corre e in lontananza già si sentono le sirene.
Qualcuno ha sparato a qualcun altro. Purtroppo, non è una novità per la Palermo di fine anni ’70. Cosa nostra inizia ad attirare attenzioni e i primi personaggi “scomodi” provano a cambiare la situazione, a riportare la legalità nel capoluogo siciliano. I mafiosi sentono la pressione e Riina sguinzaglia Leoluca Bagarella. I Corleonesi, ai tempi, stanno prendendo piede all’interno dell’organizzazione e non possono accettare le attenzioni di polizia e stampa. Bisogna mettere a tacere anche solo chi pensa di iniziare a indagare.
È solo la continuazione di un tragico film già visto, l’ennesima dichiarazione di guerra della mafia allo Stato. In quel bar, il 21 luglio di 42 anni fa, c’era Boris Giuliano, ai tempi capo della Squadra Mobile di Palermo. Leoluca Bagarella, cognato di Riina, sparò 7 colpi alle spalle del poliziotto, così come emerso dalle indagini.
In quei tragici anni ’70 del secolo scorso, prima e dopo di lui caddero vittime della mafia personalità del calibro di Peppino Impastato, Cesare Terranova e non solo. La mafia iniziava a preoccuparsi e ne aveva ben donde. “Aveva capito perfettamente quale doveva essere la strada per attaccare l’organizzazione criminale”, ha detto l’anno scorso nel corso delle celebrazioni il capo della polizia di Palermo, Franco Gabrielli.
Era un poliziotto tosto, di quelli che non si tirava indietro. Tant’è che fu inserito nel superteam per le indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, rapito da Cosa nostra nel settembre del 1970 (forse per le sue ricerche sul caso Mattei). In quella squadra, oltre a Giuliano, figurava anche Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Le indagini della condanna a morte
Diventa capo della Squadra Mobile del capoluogo nel 1976 e svolgerà il suo lavoro con onore e coraggio fino al giorno dell’omicidio di mafia. L’indagine che però segna la sua condanna a morte è, con ogni probabilità, una delle ultime. Già l’interessamento passato al banchiere Michele Sindona, nell’ambito delle indagini sull’omicidio di Beppe Di Cristina, aveva fatto storcere il naso a Cosa Nostra.
Da ricordare che dal momento del suo insediamento a Palermo – complice anche la sua partecipazione alla National Academy dell’FBI, nella quale si specializzò (fu il primo poliziotto italiano a fare parte della squadra) – Boris Giuliano portò sul campo metodi innovativi di indagine per l’epoca. Di questi, i più scomodi per le organizzazioni mafiose riguardavano le indagini sui conti bancari, dato che toccavano direttamente le “sacchette” di boss e affiliati.
Ma furono le indagini sul traffico di droga internazionale gestito dalla mafia a mette il capo della Squadra Mobile di Palermo sulla lista nera di Totò Riina e commissione. Nel giugno del 1979, Giuliano scoprì due valigie con 500mila dollari in contanti all’aeroporto di Palermo tra i bagagli di un volo arrivato da New York.
Le successive risultanze accertarono che si trattava del pagamento di una partita di droga da parte di Cosa Nostra statunitense alle famiglie siciliane. È qui che Boris Giuliano comprese come l’oppio venisse trasformato in eroina direttamente in Sicilia prima dell’esportazione negli Stati Uniti.
Poco tempo dopo, all’aeroporto di New York venne trovato il carico collegato a quei soldi. Una partita di eroina. Un’operazione collegata alla famosa Pizza Connection. Da lì gli arresti di diversi mafiosi, la scoperta di covi con armi e droga, nonché di foto che ritraevano parecchi boss corleonesi e Leoluca Bagarella. In particolare, di quest’ultimo venne ritrovata una foto appiccicata su una patente contraffatta.
Sarà lui il suo carnefice materiale, l’uomo che porrà fine alle sue indagini e lo metterà a tacere. Lo ha stabilito una condanna all’ergastolo del 1995 e la sentenza definitiva del 1997. Il 18 marzo 1995 vennero condannati come mandanti all’ergastolo Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Francesco Madonia, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Nenè Geraci.
Un personaggio “scomodo” per Cosa nostra, fatto fuori nel modo più brutale e codardo (alle spalle). Hanno ucciso l’uomo, non l’idea, hanno tolto una vita (per loro una delle tante), ma non hanno fermato la voglia di giustizia e legalità.
I riconoscimenti per il suo lavoro arrivarono niente popò di meno che da Paolo Borsellino, il quale scrisse nell’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo: “Devesi riconoscere che se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano, probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati”.
Non usava mai mezzi termini Borsellino e sapeva riconoscere il valore degli uomini che hanno lottato contro la mafia e il malaffare. E forse Boris, da lassù e sentendo quelle parole, strappò un sorriso beffardo quasi a dire “non ci avete sconfitto”, perché 42 anni fa fu ucciso un uomo, ma la mafia aprì un conto che ancora non è stato del tutto chiuso.
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