Scuola

“Come può un ragazzo come me costruire la pace?”

La pace non è solo uno stato di fatto – l’assenza della guerra – ma è prima di tutto un modus vivendi, una maniera di stare al mondo, di vivere con se stessi e coesistere con gli altri. Quest’interpretazione della pace come vocazione è vincolata al concetto di una giusta educazione, imperniata sui valori della non violenza, dell’alterità, della giustizia sociale, del rispetto del genere umano”.

Questo è il nucleo della visione della pace proposta dalla filosofa spagnola Maria Zambrano (1904-1991), che vede nell’educazione alla pace la via imprescindibile per giungere ad un autentico rispetto della sacralità tra le “creature umane”.

Tra le pagine ingiallite dei giornali di alcuni anni fa ho trovato un manifesto color seppia con l’immagine di un ragazzo che cerca di comporre un puzzle con la parola “Pace”.

Ricordo che la foto è stata scattata nel cortile della scuola, mentre in classe si dibatteva il tema della pace. Era il 1991, quando era scoppiata la guerra del Golfo in Medio Oriente.

Ancora oggi ci si pone la medesima domanda. “Come può un ragazzo come me costruire la pace?”. Come educare alla pace, valore da tutti condiviso, ma disatteso e mal trattato da un comportamento che calpesta i diritti e la dignità delle persone, che alimenta l’emarginazione, che si chiude nella cassaforte dell’egoismo e segue i molteplici sentieri del relativismo?

L’azione terroristica di Hamas è l’espressione di una volontà di strage ignobile, esecrabile, ingiustificabile. Sono questi gli aggettivi che i Capi di Governo adoperano per condannare i tristi eventi accaduti, ma “adesso cosa possiamo fare?”.

Norberto Bobbio già nel 1989, mentre affermava “servirebbe un mediatore forte e riconosciuto“, il “defensor pacis” che inchioda le parti al compromesso faceva notare con amaro realismo che “nell’attuale sistema internazionale questo Terzo non esiste, né se ne profila uno credibile all’orizzonte“.

Sono trascorsi 34 anni ed ancora la situazione appare immutata. La pace a scuola si insegna vivendola, dando concretezza all’essere “Comunità educante” in cammino, insieme alla famiglia, verso la medesima direzione: “Il bene dei ragazzi”, “il miglior bene di tutti e di ciascuno”.

Le liti, i conflitti, le gelosie, i segni anche non verbali di esclusione, di emarginazione, di allontanamento, di distacco, non sono certamente esempi di educazione alla pace; eppure, gli studenti a scuola, spesso registrano tali atteggiamenti.

È difficile costruire la pace che non si può limitare ad assemblare il puzzle delle lettere “Pace”, o esporre la bandiera arcobaleno.ma, seguendo il modello degli educatori “saggi”, occorre fare dei piccoli passi e “se ognuno fa qualcosa…” la piantina della pace cresce e si sviluppa nel cuore di ognuno e apporta positivi benefici all’intera società civile.

La via della non violenza presuppone una svolta nel «realismo politico» e prelude a un nuovo modo di agire, vincendo la ripetizione della storia, come si legge in “L’educazione alla pace” di Aldo Capitini: “Perché realista è chi sa gettare nel profondo del suo tempo lo scandaglio, e avverte non ciò che ripete il passato come fu, ma ciò che apre, che rinnova energicamente“.

In questa nuova prospettiva, la condanna della violenza è assoluta. Nessuna violenza è giusta, nemmeno la violenza rivoluzionaria. Da violenza, infatti, nasce violenza, e si diffonde una diseducazione generale, come ha scritto il direttore de “La Stampa”, Andrea Malaguti: «La violenza inghiotte ogni cosa, confonde i pensieri, rende complicati i ragionamenti, alimenta la cattiveria e i fanatismi».

Guardare il presente con gli occhi del passato” è una regola che impegna a saper “progettare il futuro alla luce dei valori”. È questa la funzione educativa della scuola ed ogni operatore ha il compito di essere “ambasciatore di pace“.

Articolo a cura di Giuseppe Adernò

Redazione

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