L’idea era potente, visivamente d’impatto, emotivamente coinvolgente: una bottiglia piena di riso lanciata verso Gaza, come messaggio disperato, come denuncia dell’inerzia internazionale, come grido collettivo contro la fame.
Un gesto che voleva scavalcare confini, burocrazie e silenzi. Ma è bastato il rumore delle onde – e di qualche coscienza critica – per trasformare quel gesto in una contraddizione plastificata che ha suscitato dubbi e riflessioni.
L’appello invitava a gettare in mare – con l’intento di raggiungere Gaza – bottiglie di plastica contenenti riso, farina o latte in polvere. Una sorta di aiuto umanitario, seppur con modalità non convenzionali (o, meglio, un tentativo disperato di poter essere realmente utili).
Il paradosso virale
Nel giro di poche ore, i social sono esplosi. Video da Londra, dal Mediterraneo, dall’Egitto, bambini che lanciano bottiglie come fossero preghiere galleggianti, attivisti commossi, cuori e condivisioni a pioggia. Un’ondata di partecipazione che, almeno nelle intenzioni, voleva colmare il vuoto lasciato dai governi.
Ma i simboli, quando si traducono in azioni concrete, devono reggere l’urto con la realtà. E la realtà, questa volta, ha restituito una domanda scomoda: quante di quelle bottiglie finiranno davvero sulla costa di Gaza, e quante invece si aggiungeranno all’oceano di rifiuti plastici che sta soffocando il pianeta?
La coscienza ecologica affonda
Non si può lanciare un grido d’aiuto per Gaza annegando i mari nella plastica. È questo l’appello – altrettanto disperato – di ambientalisti ed esperti che hanno smascherato, senza mezze misure e dal loro punto di vista, il cortocircuito etico dell’iniziativa.
Migliaia di bottiglie in mare, riempite di cibo, destinate – probabilmente – a non raggiungere mai i loro presunti destinatari. Un gesto inefficace, se non addirittura dannoso, che rischia di trasformare un atto simbolico in uno vuoto e tendenzialmente controproducente.
La sete di senso
In tempi di guerra e disumanità, l’umanità cerca simboli cui aggrapparsi. È naturale, è necessario. Ma c’è una differenza tra provocazione e superficialità, tra denuncia e scarico di coscienza.
L’indignazione non può diventare performativa. I mari non sono bacheche, le bottiglie non sono post da lanciare nel feed globale. La fame di Gaza merita gesti concreti, non azioni che si risolvono in uno scatto virale e in un altro strato di plastica galleggiante.
Il bisogno di gesti giusti
È legittimo cercare un modo per rompere il silenzio, per mostrare empatia, per indignarsi. Ma i gesti che vogliono cambiare il mondo devono essere coerenti con il mondo che vogliamo costruire.
Aiutare Gaza significa premere sui governi, sostenere ONG serie, informare, protestare dove serve. Non gettare plastica in mare nella speranza che le onde la trasformino in solidarietà.
Da che parte stai, davvero?
In un mondo iperconnesso, ogni gesto può diventare virale. Ma non tutto ciò che diventa super “condiviso” è giusto. L’indignazione non basta. Serve responsabilità. Serve lucidità. E serve il coraggio di guardare un gesto, anche il più poetico, e chiedersi: è davvero indispensabile, o serve solo a farci sentire meglio?
Le bottiglie che galleggiano nel Mediterraneo oggi non parlano di speranza. Parlano di un simbolo che ha fallito, seppur nobile nelle intenzioni, affondato sotto il peso della sua stessa leggerezza.