MESSINA – C’è un problema. Il fallimento dell’ACR Messina è sconfitta, sfregio del Sud, della Sicilia. È l’ennesimo ponte che non riesce a riemergere dalla melma della povertà, del pregiudizio, del “essere terrone”.
Ed è proprio quell’abitudine alla polvere che ha normalizzato vedere e accettare il fallimento in un limbo di 7 anni delle tre grandi dell’Isola: 2019 Palermo, 2021 Catania e adesso Messina.
“Era la scelta migliore”, sicuramente lo era in tutti i casi. Economicamente, per il bilancio, per gli imprenditori, per le società. Ma al popolo cosa resta davvero? Nulla, detriti, ricordi di un passato ingiallito, consapevolezza di un futuro nero.
Il caso Messina: naufragio di una città
Il fallimento dell’ACR Messina non arriva come un fulmine a ciel sereno: era da tempo un naufragio annunciato. I numeri parlano chiaro – stipendi e contributi non versati, penalizzazioni, debiti fuori controllo – ma ciò che brucia davvero è la gestione che ha accompagnato questo disastro.
Da un lato un presidente, Pietro Sciotto, che per anni ha tenuto la società in equilibrio precario, senza mai costruire un progetto solido né un rapporto reale con la città. Dall’altro l’illusione dei “salvatori stranieri”: il fondo lussemburghese AAD Invest, accolto a gennaio con toni trionfali, era già reduce da un fallimento in Belgio. Bastava una ricerca superficiale per capire che non avevano né risorse né credibilità per rilanciare una piazza storica. Eppure si è scelto di credere all’ennesima favola.
In pochi mesi la situazione è precipitata: mancati pagamenti, promesse non mantenute, debiti che hanno superato i due milioni euro. Il campo ha restituito l’immagine di una squadra appesa al nulla, costretta a scontare penalizzazioni mentre la società affondava.
Poi il colpo di grazia: la sezione fallimentare del Tribunale ha dichiarato la liquidazione giudiziale, respingendo le richieste di proroga e la possibilità di presentare un piano di ristrutturazione dei debiti. Nella sentenza si parla chiaramente di “entità rilevante delle passività, assenza di liquidità e stato irreversibile di insolvenza”. Tradotto: il club non è più in grado di garantire la sua stessa esistenza.
Non è stato disposto nemmeno l’esercizio provvisorio, quel minimo che avrebbe permesso di continuare l’attività sportiva. Solo la nomina di un commissario giudiziale, chiamato a valutare se e come portare avanti la stagione attraverso una procedura pubblica, lascia uno spiraglio – più formale che reale. Perché al netto delle carte, la sostanza è chiara: il Messina non esiste più.
Ed è qui che sta l’amarezza più grande: non si tratta solo di un club che chiude i battenti, ma della resa definitiva di una città che aveva raggiunto il settimo posto in Serie A, che aveva battuto l’Inter al San Filippo, che per un attimo aveva creduto di poter sognare, come tutti, come i grandi. Oggi resta soltanto il vuoto, e la sensazione di essere stati lettori di un destino già scritto, di una lassa Rolandiana già cantata e di cui tutti hanno ignorato l’assordante leitmotiv.
Quello che resta è un castello di carte crollato con un soffio d’indifferenza. Un impoverimento ancora più marcato dello sport, della felicità, della speranza al Sud. Perché se i ragazzi non hanno qualcosa in cui credere, come possono continuare a nuotare in questo mare d’odio? Come si può valorizzare un territorio con la consapevolezza che verrà distrutto, deturpato. E forse sarebbe anche bello, per una volta, alzare la testa, mostrare quelle cicatrici polverose in volto con fierezza. Ma questi restano sogni e la sensazioni è che ci abbiano tolto anche quelli, lasciando una terra nell’odio, nel marciume, nella desertificazione.