Si è detto tanto sul femminicidio di Sara Campanella e forse si sono dette sempre le stesse solite frasi fatte. “Sembrava un bravo ragazzo”, “Studiava e si manteneva da solo”, “Son sembrava un folle”.
Non c’è stato nessuno, se non in pochissimi che abbiano pensato: “Forse c’è qualcosa che non funziona”. Perché la morte di Sara è il coccio di uno specchio che riflette, ancora una volta, il fallimento di un sistema educativo e culturale che non riesce a prevenire la violenza.
Nonostante leggi, campagne di sensibilizzazione e indignazione collettiva, i dati sui femminicidi in Italia continuano a essere allarmanti: nel 2024, secondo l’ISTAT, sono state oltre 120 le donne uccise. Nel 2025 le vittime sono già 11.
Ci si chiede allora: dove nasce questa violenza? Perché molti uomini reagiscono al rifiuto con il controllo, la minaccia, l’aggressione? La risposta, almeno in parte, sta nell’educazione che questi uomini hanno ricevuto – o non hanno ricevuto – lungo il corso della loro crescita.
Sara Campanella, un’anima strappata dal fallimento di un sistema
Spesso il dibattito pubblico si concentra sull’aspetto giuridico o psicologico del femminicidio, ma raramente si va a monte, al momento in cui bambini e adolescenti iniziano a costruire la propria idea di sé, degli altri, delle relazioni. È qui che la pedagogia dovrebbe intervenire, non come materia scolastica in più, ma come pratica culturale condivisa da famiglie, scuole, media e istituzioni.
Se fin da piccoli ai ragazzi viene trasmessa l’idea che le emozioni vadano represse, che la virilità significhi dominio, che la gelosia sia una prova d’amore e non un campanello d’allarme, allora il terreno è fertile per una visione tossica del rapporto uomo-donna. È una questione pedagogica e soprattutto culturale.
Una cultura che non educa al rifiuto
Quando si è piccoli, mi vengono in mente le elementari, capita che una bambina vada dall’insegnante lamentandosi perché un “Compagnetto mi insulta” e il docente giustifica sorridendo “è perché gli piaci”. Cresciamo dunque con questa idea che la violenza, l’odio, l’insulto, portino ad una radice amorosa. Utilizziamo l’amore come mezzo di giustificazione.
Sono molti i femminicidi che nascono dall’incapacità di accettare un rifiuto. E questa incapacità, lungi dall’essere innata, è il frutto di una cultura che ha abituato i ragazzi all’idea che “se vuoi qualcosa, puoi ottenerla”, anche in amore. Non si insegna a perdere, non si insegna a lasciar andare. E così, quando una relazione finisce, alcuni uomini non vedono l’altro come un individuo autonomo, ma come qualcosa che gli è stato tolto.
Basti pensare all’intercettazione telefonica tra Sara e il suo assassino Stefano, il quale ai chiari “Sono fidanzata, lasciami stare”, lui ha pensato bene di rispondere dicendo “Non è vero tu pensi a me”. Perché d’altronde “in amore si lotta” in questo terribile ossimoro che associa amore e violenza in un amplesso che porta solo un frutto: morte.
La scuola, pur con mille difficoltà, dovrebbe essere un presidio contro questa deriva. Eppure troppo spesso i progetti sull’educazione affettiva e di genere restano marginali, occasionali, affidati alla buona volontà di pochi docenti.
Non bastano le leggi, serve educazione
Non bastano le leggi o le sentenze. Il sistema giudiziario arriva sempre troppo tardi: quando la violenza si è già compiuta. Serve una rivoluzione educativa che cominci prima: a casa, a scuola, nei luoghi dove i bambini imparano a diventare uomini.
Educare al rispetto, alla parità, al consenso, alla gestione delle emozioni non è un optional, ma una necessità sociale. Parlare di pedagogia non significa semplificare un problema complesso, ma avere il coraggio di affrontarne le radici.
Sara Campanella è una vittima di femminicidio. Ma anche di un sistema educativo e culturale che ha fallito. Finché non prenderemo sul serio il ruolo dell’educazione, continueremo ad ergere panchine rosse, a contare vittime, a fare analisi psicologiche in televisione, a fare servizi straordinari sull’ennesimo killer.
Killer che oggi è Stefano Argentino, ieri era Filippo Turetta, domani potrebbe essere un altro “bravo ragazzo” a cui però non è stato insegnato vivere. Probabilmente tra meno di una settimana non si parlerà più della povera Sara, o se lo si farà solo per processi o importantissimi dettagli sulla dolce vita privata dell’omicida.
Passata questa settimana però, alla prossima notizia di femminicidio, non chiedetevi “Perché è successo?” ma invece “Perché non abbiamo mai fatto nulla prima?”.