Luz Long: l’”ariano” che offese Hitler mandato a morire in Sicilia

Luz Long: l’”ariano” che offese Hitler mandato a morire in Sicilia

MOTTA SANT’ANASTASIA – Cripta 2 “Caltanissetta”, piastra E. Un nome inciso sulla lastra di ardesia preceduto dal grado (“Obergefreiter-dR”, “Appuntato della Riserva) e seguito dalle date di nascita (27 IV 13) e di morte (14 VII 43). È quanto resta di Carl Ludwig Long, detto Lutz o Luz. Più semplicemente Luz Long, uno dei 4.561 soldati tedeschi morti in Sicilia durante la Seconda Guerra Mondiale e sepolti nel cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia.

Eppure dietro il suo nome si cela la storia di uno degli atleti che più di ogni altro ha saputo incarnare lo spirito sportivo di eguaglianza e rispetto promosso da Pierre de Frédy, barone di Coubertin, fondatore dei moderni Giochi olimpici.

Luz Long era nato a Lipsia il 27 aprile 1913, discendente di una famiglia di illustri accademici. Seguendo la tradizione familiare, dopo gli studi giovanili, aveva scelto la facoltà di giurisprudenza dell’Università della sua città natale, ottenendo brillanti risultati in ambito studentesco prima, e in campo professionale poi.

La sua più grande passione, però, era il salto in lungo. E il talento era dalla sua parte, permettendogli di entrare in breve tempo di diritto tra i migliori saltatori in lungo dell’epoca.

Alto, slanciato, chiaro e biondo, Long incarnava in tutto e per tutto gli ideali della razza ariana promossi dalla dottrina nazista del Terzo Reich. In lui il Führer Adolf Hitler aveva riposto le speranze di veder primeggiare la Germania in una disciplina dell’atletica leggera durante le Olimpiadi di Berlino del 1936.

La kermesse sportiva, del resto, si era rivelata utile al regime per dimostrare al mondo la grandezza e la supremazia della risorta Germania. Un successo d’immagine senza precedenti per Hitler che, seduto in tribuna d’onore all’Olympiastadion di Berlino (costruito per l’occasione), si godeva i trionfi dei suoi atleti.

A guastargli la festa e provocargli mal celati attacchi d’ira, però, c’erano gli acerrimi rivali statunitensi che, con le vittorie dei loro atleti di colore, definiti dal Ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, “gli ausiliarii negri americani”, stavano mettendo in serio imbarazzo il regime nazista e il mito della superiorità della razza ariana. Un fastidio che Hitler manifestò dichiarando: “Gli americani dovrebbero vergognarsi di sé stessi, lasciando che i negri vincano le medaglie d’oro per loro”.

Il Führer, però, non aveva fatto i conti con lo spirito del suo atleta di punta, Luz Long. Il 23enne lipsiano, infatti, non era animato dal furore nazista e gareggiava solo per amore dello sport. Fu proprio lui, col suo candore e con un eclatante, quanto spontaneo, gesto di fair play, a regalare alla storia uno dei momenti più significativi dell’intera competizione olimpica.

La mattina del 4 agosto 1936 Luz si qualifica in scioltezza per la finale del salto in lungo. Il favorito all’oro, però, è il 23enne afro-americano Jesse Owens, nipote di schiavi dell’Alabama, cresciuto a Cleveland, in Ohio, già detentore di numerosi record, che a Berlino si appresta a fare la storia dell’atletica: vincerà ben 4 medaglie d’oro, mandando in frantumi i sogni di gloria di Hitler e facendo storcere il naso ai suoi stessi compatrioti, incapaci di accettare il colore della sua pelle.

La qualificazione si svolge in concomitanza con le batterie dei 200 m. piani: Ownes è impegnato in entrambe le specialità, e la contemporaneità dei due eventi lo distrae, facendogli rimediare due salti nulli. L’eliminazione sembra a un passo e Hitler pregusta già il trionfo del suo “ariano”. Ma Long manda a monte il suo piano, dando mostra di grande sportività.

L’atleta tedesco, infatti, si avvicina a Owens, ricordandogli, nel suo inglese dal forte accento tedesco, che uno come lui, con le sue grandi potenzialità, si dovrebbe qualificare a occhi chiusi. Long gli suggerisce, quindi, di staccare 20 cm prima della linea di battuta e gli indica il punto esatto poggiando un fazzoletto di fianco alla pedana, proprio all’altezza dell’ideale punto di stacco.

Owens segue il consiglio del rivale e si qualifica per la finale del pomeriggio. Long è il primo a congratularsi con l’atleta americano, sia in occasione della qualificazione, sia dopo la vittoria in finale del rivale che conquista la medaglia d’oro e lascia a lui il secondo piazzamento.

Tra i due nasce una profonda amicizia sancita dalle strette di mano e dagli abbracci sinceri di quei primi istanti, e che si consolida nei giorni successivi, quando i due prendono l’abitudine di incontrarsi e parlare nel villaggio olimpico. Un’amicizia che resiste al tempo e alla distanza, come dimostra il loro scambio epistolare, e che il regime nazista cerca di censurare dai filmati originali dell’epoca. E per la quale Long, anni dopo, sarà punito.

Dopo le Olimpiadi del ’36, il destino sembra essere benevolo per Long: nel 1939, finiti gli studi di legge, diventa avvocato, e nel 1941 si sposa; dall’unione, poco dopo, nasce il figlio Kai. Nel 1942, però, l’ex campione è richiamato alle armi come ufficiale della Luftwaffe e spedito in prima linea, a espiare la colpa per quello smacco mai dimenticato commesso ai danni della “sacra” immagine del regime.

Nell’aprile del 1943 viene assegnato alla divisione Herman Göring e il mese successivo è inviato in Sicilia. Poco dopo lo sbarco degli Alleati sull’isola, Long rimane gravemente ferito negli scontri a sud di Caltagirone. Viene catturato e trasferito in un ospedale da campo inglese a San Pietro Clarenza, dove i medici militari, però, non possono far altro che constatarne il decesso. Era il 14 luglio 1943.

Long è morto vestendo la divisa di quel regime nazista del quale non condivideva obiettivi e ideologia, così in antitesi con la sua sensibilità e nobiltà d’animo, lontano anni luce dal fanatismo e dalle crudeltà della Germania di quegli anni. Come dimostrano le parole che nel 1932 affida a una lettera inviata alla nonna: “Tutte le nazioni del mondo hanno i propri eroi, i semiti così come gli ariani. E ognuna di loro dovrebbe abbandonare l’arroganza di sentirsi una razza superiore”.

Sulla lapide sotto la quale riposano i suoi resti, accanto al suo nome, è posta oggi una pietra, un piccolo simbolo (che ricorda l’usanza ebraica di lasciare, al posto dei fiori, un ciottolo sulle tombe dei defunti), per dimostrare che la sua storia non è stata dimenticata. E il messaggio di pace e fratellanza del quale è stato promotore in vita, arriva, suo malgrado, anche attraverso il suo luogo di sepoltura. Perché, come riporta la targa posta all’entrata del cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia, “i sepolcri dei caduti sono i grandi predicatori della pace” (Albert Schweitzer, premio Nobel per la pace).

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