La Riforma Basaglia: la chiusura dei manicomi e il diritto alla cura

La Riforma Basaglia: la chiusura dei manicomi e il diritto alla cura

ITALIA La Legge Basaglia, formalmente nota come Legge 180, è stata approvata nel 1978 e ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nel campo della psichiatria in Italia. Tale legge ha avuto l’obiettivo di abolire definitivamente la pratica dell’internamento in manicomio, sostituendola con i servizi di assistenza territoriale per i pazienti affetti da disturbi mentali. L’approccio della legge Basaglia è stato basato sulla valorizzazione della dignità umana, la soppressione delle privazioni di libertà, la promozione di attività terapeutiche rispettose dei diritti e della libertà individuali e la lotta alla discriminazione delle persone con disturbi mentali. Grazie a questa Legge, l’Italia ha fatto un importante passo verso la piena tutela dei diritti dei pazienti affetti da disturbi mentali e ha rappresentato un esempio per molti Paesi nel mondo.

Franco Basaglia è stato un medico psichiatra italiano, noto soprattutto per la sua lotta contro la concezione tradizionale dell’istituzione manicomiale. Nel corso della sua carriera ha lavorato presso diverse istituzioni per le persone affette da disturbi mentali, tra cui il manicomio di Gorizia, e combattè per portare avanti ciò che Maxwell Jones aveva iniziato in Inghilterra dieci anni prima: la trasformazione dell’ospedale psichiatrico in un’organizzazione più aperta e orizzontale, in cui gli utenti-pazienti avrebbero avuto un rapporto paritario con gli operatori sanitari. Tale trasformazione comportava l’eliminazione della contenzione fisica, delle terapie con elettroshock e dei cancelli chiusi nei reparti. L’approccio avrebbe dovuto essere spostato nel rapporto umano con l’aiuto di sole terapie farmacologiche, in modo tale che chi si trovava nelle strutture sanitarie diventasse persona da aiutare e non da recludere o isolare.

Benché difficile da far accettare alla città, Basaglia allestì laboratori di pittura e di teatro all’interno dell’ospedale psichiatrico e creò una cooperativa di lavoro tra i pazienti. Nonostante ciò, la sua idea era di andare oltre questa trasformazione all’interno dell’ospedale psichiatrico, e di chiudere il manicomio sostituendolo con una rete di servizi esterni per l’assistenza delle persone affette da disturbi mentali. L’approccio psichiatrico andava modificato perché, senza comprendere i sintomi della malattia mentale, non si poteva mantenere un ruolo nel processo che finiva per escludere il malato mentale. Questo era ciò che prevedeva il sistema istituzionale, che Basaglia cercava invece di superare.

La sua esperienza lo ha portato a sviluppare una critica sistematica verso le modalità di cura delle malattie psichiatriche, che prevedevano il ricovero forzato in strutture isolate dalla società. Basaglia si è schierato apertamente contro questa pratica, che considerava unico strumento per l’emarginazione dei pazienti. L’attenzione verso le condizioni di vita dei pazienti affetti da disturbi mentali lo ha portato a supportare l’abbattimento delle istituzioni manicomiali e la riorganizzazione delle cure per le malattie psichiatriche all’interno della comunità. Grazie alla sua azione attivista e al suo impegno pubblico, Basaglia è divenuto un simbolo in Italia della lotta alla discriminazione e ai pregiudizi nei confronti delle persone affette da disturbi mentali. Basaglia, precursore di cambiamenti significativi nella psichiatria, fu tra i primi a promuovere la libertà da costrizioni, la collaborazione tra i soggetti interessati, l’aumento della visibilità della malattia mentale in senso antistigmatizzante, il rispetto dei diritti degli internati, e l’attenzione al ruolo della famiglia.

L’intervista al dottor Maglitto

Affrontiamo questo delicato argomento con il Dott. Antonio Maglitto, Psichiatra e Psicoterapeuta. Direttore Sanitario del Centro di Riabilitazione ANFFAS Onlus di Catania. Esercita la sua professione presso gli studi clinici di Catania e il Centro Polidiagnostico Coco di Lentini (SR). Effettua consulenze on line in Italia e nel mondo.

Quali erano le condizioni dei pazienti ricoverati nei manicomi prima dell’approvazione della legge Basaglia?

“In Italia, prima del 1978, anno di approvazione della ‘Legge Basaglia’, la legge che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio istituendo i servizi di igiene mentale pubblici era in vigore la Legge 36 del 1904 il cui testo recitava: ‘Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi’. Questi individui rappresentavano, pertanto, una minaccia per la società dalla quale dovevano essere allontanati per essere internati all’interno dei manicomi. Qui le persone non venivano rinchiuse per essere curate, ma per finire i propri giorni lontano dalla società. I manicomi, diffusi in tutta Europa, rappresentavano talvolta uno strumento di potere, attraverso il quale si decideva, senza utilizzare criteri fondati su alcuna evidenza scientifica sull’esistenza degli individui. Erano considerati “deviati” coloro che, per motivazioni non sempre legate alla malattia mentale, non rientravano nei parametri culturali della società di riferimento, pertanto spesso veniva internato chi viveva ai margini della società: persone senza fissa dimora, alcolisti, disabili intellettivi, omosessuali, prostitute.

All’interno dei manicomi i pazienti erano classificati e smistati sulla base del loro comportamento: nessuna attenzione era posta all’osservazione clinica della sintomatologia della persona. Esistevano pertanto aree destinate agli individui “tranquilli, laboriosi e ordinati”, all’interno delle quali veniva praticata la “ergoterapia” un’attività manuale che talvolta rappresentava una vera e propria forma di sfruttamento lavorativo. Esistevano inoltre le aree di permanenza per “agitati e inquieti”: individui soggetti ad agitazione psicomotoria, crisi pantoclastiche, episodi di aggressività auto ed etero diretta esplosiva ed imprevedibile e le aree di “osservazione” all’interno delle quali il paziente veniva tenuto in osservazione prolungata per poi essere indirizzato al reparto a lui più indicato od eventualmente dimesso. Se un paziente all’interno del manicomio accusava un problema di salute, veniva trasferito presso il reparto di infermeria, dove raramente poteva usufruire di una visita medica: i medici infatti non erano soliti avere un contatto con i pazienti manicomiali, limitandosi a osservarli a distanza ed a toccarli attraverso l’uso di oggetti. Non era pertanto insolito assistere al cronicizzarsi e all’aggravarsi di problematiche di salute anche lievi che esponevano pertanto il paziente a complicanze anche severe.

All’interno dei manicomi veniva talvolta praticato l’elettroshock, una tecnica terapeutica basata sull’induzione di convulsioni nel paziente mediante flussi di corrente elettrica. La poetessa Alda Merini riporta con tali parole l’atroce ricordo di questa pratica:In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock […] La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile […] Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra. Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo”.

“I pazienti affetti da sintomatologia psichica dalla gestione particolarmente difficile e complessa: i violenti, gli irascibili, gli agitati potevano essere candidati alla leucotomia prefrontale, meglio conosciuta come lobotomia: pratica neurochirurgica, studiata già alla fine dell’ XIX secolo venne perfezionata da Moniz e Freeman che per questo si aggiudicarono il Premio Nobel per la Medicina nel 1949 che consisteva nella rimozione meccanica di connessioni nervose e parti di corteccia cerebrale. Tale procedura determinava sovente l’annullamento della personalità del paziente che veniva reso docile e facilmente gestibile, determinando inoltre disabilità motorie, del linguaggio e disturbi della memoria. La paziente Rosemary Kennedy, sorella del presidente americano John Fitzgerald Kennnedy è un caso celebre di persona sottoposta a tale intervento all’età di 23 anni su insistenza del padre, disturbato dagli sbalzi d’umore della figlia e del suo accentuato interesse verso l’altro sesso. Oggi possiamo affermare come all’interno dei manicomi si strutturasse una vera e propria “sindrome dell’alienamento sociale”: la persona deprivata di ogni possibilità di funzionamento sociale, familiare e lavorativo instaurava una sintomatologia mentale reattiva all’istituzionalizzazione e non al presunto disturbo che avrebbe dovuto determinarne l’internamento”.

Quali erano le principali limitazioni e criticità dell’approccio ai disturbi mentali prima della chiusura dei manicomi?

“Prima dell’introduzione della legge Basaglia, era in voga un appiattimento organicistico della malattia mentale, considerata esclusivamente malattia d’organo al pari delle malattie cardiache, polmonari etc.  Si riteneva che non fosse necessario studiare, comprendere e differenziare i disturbi attinenti alla sfera psichica, in quanto sprovvisti di logica e coerenza interna. La soggettività la storia personale e il mondo del paziente non erano di interesse della psichiatria unicamente tesa a curare la malattia del cervello malato piuttosto che a prendersi cura della persona. Ciò determinava la standardizzazione dei disturbi e dei trattamenti che non solo non curava la patologia. ma, sovente, ne inaspriva le peculiarità psicopatologiche.

In quest’ottica i pazienti affetti da disagio psichico venivano relegati al ruolo esclusivo di fonte di imbarazzo e disagio per la famiglia e di problema per la società. Compito della psichiatria dell’epoca era esclusivamente quello di contenere il problema e ridurre il danno potenzialmente rappresentato dai questi soggetti, i quali, considerati in maniera grossolanamente semplicistica irrecuperabili e socialmente pericolosi, venivano pertanto confinati nei manicomi che per tali motivi erano edificati in luoghi periferici ed isolati. “Il manicomio non serve a curare la malattia mentale ma solo a distruggere il paziente” F. Basaglia”.

Come ha cambiato l’approccio alla cura dei pazienti con disturbi mentali la chiusura dei manicomi?

“Merito indiscusso della Legge Basaglia è stato il prevalere del metodo scientifico fenomenologico ed esistenziale che coniuga gli aspetti fondamentali e imprescindibili della osservazione clinica del paziente da parte del medico e della complessità intrinseca della condizione umana. Ciò si traduceva nella sospensione di ogni forma di giudizio e nello studio attento e globale della persona a partire dalla storia di vita personale, dal ruolo sociale svolto, fino all’analisi dei sintomi di sofferenza mentale necessari a un corretto inquadramento diagnostico e all’impostazione di una idonea strategia terapeutica.

Sul piano pratico e operativo si è assistito alla graduale e progressiva trasformazione dei manicomi in comunità terapeutiche: una dimensione che privilegia la sinergica interazione tra pari: medici, operatori e pazienti sono i fautori di un’alleanza terapeutica che ha il solo fine di migliorare la qualità di vita della persona a partire dalle sue caratteristiche, dalle sue scelte e dal suo bisogno di sostegni. ‘L’ospedale psichiatrico è il prodotto di una società violenta che scarica in esso le sue contraddizioni: non può dunque che essere negato, come non possono che essere negate la scienza e le tecniche psichiatriche, che coprono e legittimano la violenza di cui il malato di mente è vittima’, F. Basaglia”.

Quali sono i principali cambiamenti avvenuti nel sistema di assistenza psichiatrica in Italia dopo l’approvazione della legge Basaglia?

“L’introduzione della legge Basaglia ha rappresentato la “rivoluzione copernicana” dei servizi per i pazienti psichiatrici, attraverso la chiusura dei manicomi, regolamentando il trattamento sanitario e istituendo i servizi pubblici per la salute mentale. Configura un modello moderno e innovativo, che ratifica la transizione dai trattamenti contenitivi sulle persone ai percorsi terapeutici all’interno dei quali vengono salvaguardate e preservate la libertà dell’individuo tenuto conto delle caratteristiche personologiche e cliniche del paziente che deve sempre in ultima istanza approdare ad un pieno reinserimento sociale.

La legge attribuisce ai Dipartimenti di Salute Mentale e ai Centri di Salute mentale la responsabilità della presa in carico del paziente attraverso visite e terapie ambulatoriali o a domicilio. Il ricovero può avvenire solo su base volontaria e libera uscita e si attua presso strutture ospedaliere, residenziali e semi-residenziali adeguate alle esigenze terapeutiche del paziente. E’ previsto che un cittadino possa essere sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) qualora la sintomatologia psichica sia di intensità tale da richiedere interventi terapeutici non rimandabili, che la persona non riconosce e non accetta e solo qualora non vi siano le condizioni che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra-ospedaliere e sempre nell’esclusivo interesse della persona. Sono state, inoltre, previste specifiche procedure e precisi istituti di garanzia a tutela del paziente per evitare abusi nel suo utilizzo”.

Secondo Lei, ci sono ancora sfide da affrontare nell’assistenza ai pazienti con disturbi mentali anche dopo la chiusura dei manicomi? Quali?

“In un mondo in frenetica evoluzione e continuo cambiamento anche la psichiatria deve essere all’altezza delle sfide che le si pongono innanzi e deve cogliere l’opportunità di crescita e miglioramento. La società contemporanea ipertecnologica, iperproduttiva e iperperformante insieme alla diffusione di una nuova generazione di sostanze d’abuso sintetiche fino ad ora sconosciute è portatrice di insicurezze, traumi e fragilità negli individui, perlopiù giovani, i quali non si sentono sufficientemente performanti e adeguati a soddisfare dal punto di vista prestazionale le aspettative del mondo in cui sono immersi. La risultante è una vera e propria epidemia di disturbi depressivi, d’ansia e psicotici che dobbiamo essere abili a intercettare, sensibili e competenti nel comprendere e trattare.

I Servizi di Salute Mentale dovrebbero essere oggetto di grandi investimenti finalizzati ad accogliere e risolvere il disagio psichico crescente nella popolazione generale e che guardino pertanto in maniera lungimirante all’ottimizzazione e potenziamento delle risorse umane del territorio. I servizi residenziali dovrebbero ospitare popolazioni di pazienti accomunati da caratteristiche cliniche omogenee in maniera tale da specializzarsi ed eccellere nel trattamento dei diversi disturbi, piuttosto che forzare la convivenza di individui che poco hanno in comune tra loro se non la necessità di risiedere per qualche tempo in una comunità terapeutica.

A mio avviso risulta inoltre fondamentale, se si vuole approdare al vero recupero dell’individuo, e non solamente alla mera risoluzione dei sintomi, porre attenzione sulla questione esistenziale in continuità evolutiva con gli insegnamenti di Basaglia. Non esiste, infatti, guarigione senza reinserimento sociale. L’intervento psicofarmacologico e psicoterapico e le attività di riabilitazione per quanto raffinate e individualizzate devono essere affiancate da un percorso di crescita e di inserimento lavorativo anche questo individualizzato sulle capacità e potenzialità dell’individuo del quale le istituzioni devono avere la sensibilità di farsi carico”.