Restare o andare via. Continuare a lottare per ciò che si vuole o dire basta. Questo il dilemma attorno al quale ruota “It ends with us“, il film uscito sul grande schermo lo scorso 21 agosto.
Ispirato all’omonimo bestseller dell’autrice statunitense Colleen Hoover, il prodotto cinematografico del regista Justin Baldoni è uno dei più attesi e discussi dell’anno.
Tra complicità e mancanze di rispetto
Un incontro inaspettato con un affascinante neurochirurgo di nome Ryle, interpretato dallo stesso Baldoni, sconvolge la vita della protagonista, Lily, che col tempo – nonostante le perplessità iniziali – impara a fidarsi dell’uomo che ha di fronte. Nasce tra i due un legame profondo, di intesa e complicità, destinato a diventare sempre più solido. O almeno così credono, fino a quando un giorno Ryle cambia volto, mostrando a Lily un lato di sé di cui forse nemmeno lui era a conoscenza.
Scatti di rabbia e incapacità di controllare le proprie emozioni prendono il posto delle parole dolci e degli sguardi teneri che fino a quel momento avevano reso la loro relazione tanto speciale quanto autentica.
Il gusto dell’amarezza
Inizia così l’epoca dei “ti amo” mascherati da giustificazioni come “scusa“, “non succederà più“, “ti giuro che sono cambiato“. Una storia che nel giro di niente passa dal sapore di un bacio a quello dell’amarezza e del dolore, passando per la consapevolezza di doversi iniziare a difendere proprio dalle mani a cui fino al giorno prima ci si era aggrappati. Senza che qualcuno potesse immaginare che sarebbero state proprio quelle, un giorno, a lasciare il segno di uno schiaffo sul proprio volto, a causare un’accidentale caduta dalle scale. A tentare di abusare della donna che si dice di amare, costretta a guardare fisso negli occhi il suo carnefice. Lì dove non si percepisce più amore, ma solo ossessione e possesso.
Una “maledizione” che passa da madre in figlia
La violenza domestica non è una realtà nuova per Lily che fin da piccola, anche se non sulla sua pelle, ha imparato a riconoscere i segni di violenza, il rumore delle urla soffocate, le lacrime amare di chi vorrebbe mettere un punto, ma alla fine si limita sempre a un’infinita serie di virgole. È il caso di sua madre, vittima degli istinti incontrollati del marito, di cui sono celebrati i funerali in una delle prime scene del film.
Una storia che dunque si ripete, rendendo vittima questa volta proprio colei che ha sempre giudicato la madre per aver continuato a sopportare senza ribellarsi.
Non un semplice mostro
L’errore che spesso si commette parlando di violenza di genere è quello di etichettare il carnefice semplicemente come una sorta di “mostro” che, in quanto tale, dovrebbe essere facile da lasciare andare. Eppure – lo si vede spesso – in molti casi non è così.
Ciò che si ignora è che non esiste solo il bianco e il nero, non solo il buono e il cattivo. È proprio nelle sfumature che si nasconde la verità, la difficoltà nel chiudere una storia “malata”, il pianto di una donna disposta a sopportare pur di non perdere l’uomo che, al contrario di quello che in genere si pensa, non necessariamente è sempre stato così meschino come poi si è rivelato.
Questo non significa affatto che bisogna perdonare, ignorare le violenze o giustificarle, anzi. Tuttavia, è importante a volte anche assumere il punto di vista della vittima affinché si possano comprendere le ragioni che in certi casi la inducono erroneamente a temporeggiare, a non dire subito “basta”. Proprio partendo da queste consapevolezze si può poi intervenire in modo ancora più efficace per infondere coraggio a chi non ha ancora trovato la forza di ribellarsi.
Ammirevole infatti la scelta cinematografica di non dipingere Ryle esclusivamente come un uomo violento e crudele. Nel suo personaggio infatti – come a volte accade anche nella realtà – si percepisce comunque del buono, un velo di pentimento, che però – com’è giusto che sia – non sono sufficienti per tornare indietro, riavvolgere il nastro e far dimenticare tutto il male subìto. Le mancanze di rispetto, le umiliazioni, le parole pronunciate con troppa superficialità.
La libertà ritrovata
In contrapposizione con la figura contraddittoria di Ryle, ricopre un ruolo di spicco nella pellicola il personaggio di Atlas, il primo amore di Lily. Due vite, le loro, prima destinate a incontrarsi e poi a dividersi. Ma se è vero che certi amori “fanno dei giri immensi e poi ritornano“, anche quello che si riteneva un addio può rivelarsi solo un semplice arrivederci. Ed è proprio per uno scherzo del destino che i due, vittime entrambi di un passato in un contesto familiare violento, si ritrovano a distanza di anni. Un’àncora di salvezza per Lily che ritrova in lui le certezze perse e la consapevolezza che le mani di Atlas non le avrebbero mai tolto il respiro, ma anzi restituito la libertà che merita.