ITALIA – “Volevo cambiare dentro, ma non riuscendoci, ho iniziato a controllare il cibo, in modo da farlo vedere all’esterno. Dubitante della mia corporatura, ho iniziato una dieta. Restringere ed evitare il cibo mi sembrava la soluzione migliore. Ma questo evitamento è qualcosa di prettamente emotivo“. Sono le parole di Valeria Bruno, 23 anni, che ha sofferto di disturbo dell‘anoressia e di bulimia nervosa.
Quando si parla di bulimia, spesso, si utilizza l’espressione “fame d‘amore“, per indicare gli alimenti come sostituto simbolico delle cure emotive ed affettive che il soggetto non ha ricevuto in maniera adeguata nel periodo dell’infanzia. Le priorità si sovvertono, quando si soffre di disturbi alimentari, il cibo diventa il mezzo necessario per controllare tutto quello che nella vita è “sfuggito” di mano.
Un corpo eccessivamente magro, soprattutto nei casi patologici, impone di essere visto. Costringe l’altro a fermarsi, osservare e interrogarsi sulle cause di tale condizione. “Il cibo in primis è un modo per socializzare, esporsi agli altri e farsi vedere. Io volevo farmi ‘notare’, perché dentro di me c‘era qualcosa che mi faceva stare male. Non riuscendo ad esprimerlo attraverso le parole, ho deciso di farlo in maniera non verbale, tramite il processo di dimagrimento“, continua a raccontarci Valeria.
I bisogni affettivi necessitano di essere riconosciuti
Il cibo non è quasi mai sufficiente per una sana esistenza del soggetto. La “privazione” delle adeguate cure affettive, a qualsiasi età, genera nell’individuo stati di malessere che sfociano poi in diverse patologie che mettono a dura prova gli esperti della salute mentale.
A confermarlo i vari studi effettuati nel corso degli anni. Ci soffermeremo sull’esperimento effettuato nel XIII secolo dall’imperatore Federico II di Svevia, ideato per rispondere alla dibattuta questione che gli antichi linguisti si erano posta sin dai tempi dei faraoni Psammitico: qual è la lingua umana originaria?
Raccontato da Salimbene De Adam, Federico II prese la decisione di alimentare regolarmente un gruppo di neonati in completo silenzio, limitando il contatto fisico al minimo necessario per le cure igieniche. L’intento era quello di eliminare completamente la possibilità di sviluppare interazioni con le nutrici. I bambini erano così privati di cure affettive, attenzioni, carezze e amore. Secondo quanto raccontato da Salimbene, quei bambini non riuscirono a parlare e la mancanza di contatto fisico e verbale li portò inevitabilmente alla morte.
L’amore, la vita e la morte si fondono in una relazione indissolubile
È l’evidenza che la vita può manifestarsi e continuare solo quando l’altro viene “visto” e riconosciuto nelle sue necessità emotive, a qualsiasi età. Condizione che si incrocia con i disturbi alimentari. L’individuo nella “magrezza” trova il mezzo per essere “visto”. È quasi un ossimoro: mentre scompaio divento visibile ai tuoi occhi.
Non è un caso, come ci ha spiegato la dottoressa Valentina La Rosa in un’intervista esclusiva ai nostri microfoni, che i disturbi alimentari sembrano essere prevalenti nelle società industrializzate. La collettività, anche se sviluppa il crescente bisogno di riconoscimento individuale, sembra sempre più anestetizzata e distratta rispetto ai bisogni emotivi del soggetto. Oggi i disturbi alimentari sono un problema di sanità pubblica di crescente importanza in quanto, ad esempio, l’anoressia nervosa è una delle malattie psichiatriche con il più alto tasso di mortalità.
Aiutare i soggetti che soffrono di disturbi alimentari è possibile attraverso un approccio multidisciplinare, garantendogli dei percorsi di cura e di riabilitazione, rivolgendosi a strutture adeguate e professionisti della salute mentale.
L’amore, la vita e la morte si fondono in una relazione indissolubile e ci impongono di fermarci e interrogarci sulla fragilità umana.
Fonte foto “Pixabay“