ITALIA – L’infanticidio da parte delle madri è una realtà che, purtroppo, continua a esistere. Basti pensare al recente caso della madre che ha abbandonato per 6 giorni la sua neonata di 18 mesi, causando la morte per stenti della piccola.
Questo terribile fenomeno richiede una trattazione accademica notevole, poiché è qualcosa di cui ci si occupa nella storia da sempre. Per approfondire questo tema, abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta Sabrina Scalone.
Il percorso di formazione della dottoressa inizia nel 2001 con l’iscrizione alla Facoltà di Scienze e Tecniche Psicologiche dell’Università “La Sapienza” di Roma.
Nel 2007 consegue la laurea specialistica in Psicologia dell’Infanzia, dell’Adolescenza e della Famiglia. Successivamente, si iscrive al Corso Quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia dell’età evolutiva a indirizzo psicodinamico. Attualmente si dedica alla libera professione come psicologa, psicodiagnosta e psicoterapeuta a Catania e in provincia di Siracusa.
Di recente ha fondato ed è Responsabile del Centro Entheòs-IdO, studio di psicologia e psicoterapia per la diagnosi e il trattamento dei disturbi dell’età evolutiva sul modello DERBBI designato dall’istituto di Ortofonologia di Roma.
La sua passione è la Psicologia Analitica che coltiva nel percorso di formazione come Analista Psicologo al Cipa (centro Italiano di Psicologia Analitica) istituto meridionale.
Negli ultimi anni, l’infanticidio in Italia ha suscitato un crescente allarme sociale e mediatico, riflettendo una problematica complessa e dolorosa. Dal 2000 ad oggi, si contano oltre 500 bambini uccisi dai loro genitori.
In Sicilia, la situazione appare particolarmente critica, con un’incidenza di casi di infanticidio che supera la media nazionale.
Le autorità locali e le organizzazioni di tutela dei minori, infatti, sottolineano la necessità di interventi mirati, sia in termini di supporto psicologico alle famiglie vulnerabili, sia attraverso politiche di prevenzione efficaci. L’urgenza di affrontare questo fenomeno è resa ancora più pressante dalla drammatica combinazione di povertà, mancanza di risorse e supporti adeguati, che spesso lascia le famiglie sole di fronte a difficoltà insormontabili.
“L’orientamento da cui partirò è la funzione mitopoietica che sottende alla creazione del mito per eccellenza in cui, nella storia delle tragedie greche, la madre uccide i figli: il mito di Medea. Quando ci si chiede cosa spinga una madre a uccidere il proprio figlio, sicuramente le risposte non possono che essere molteplici; non ci sarà mai una singola motivazione“.
“Le madri, soprattutto quando si parla di un bambino ancora piccolo, al di sotto dei due anni, hanno spesso un potere ambivalente. La letteratura ci mostra – prosegue la dottoressa – che le madri hanno sia il potere di salvare, portando il bambino all’essere e nutrendolo, sia il potere di uccidere, poiché sono le custodi quotidiane del bambino.
La dottoressa afferma che ciò che accade nella storia contemporanea, più che nell’antichità, ci lascia inermi di fronte all’uccisione dei bambini, in primis perché di bambini ce ne sono molto meno rispetto al passato, soprattutto nel mondo occidentale. Inoltre, perché adesso intorno al bambino c’è un’idea di tutela, custodia, e potenzialità di salvezza del mondo che forse prima non c’era.
“Oltre a questo aspetto numerico, un altro aspetto importante è come sia possibile che la maternità, inondata eccessivamente di luce e sentimenti positivi, possa generare l’ombra più negativa e inimmaginabile, che è la fine, l’uccisione del frutto di questa maternità“.
In epoca romana, nel quinto secolo d.C., i bambini con pianto inarrestabile venivano uccisi perché si credeva fossero posseduti dal diavolo. La cultura sembra giustificare l’infanticidio.
Nella tragedia di Medea, questa donna con poteri magici e una forte personalità si innamora di Giasone, l’uomo che aiuta a fuggire a Corinto per vicende familiari. Giasone, però, si innamora di un’altra donna e tenta di sposarla abbandonando Medea. A questo punto Medea inscena una vendetta crescente.
Prima colpisce l’amante di Giasone, poi, non contenta, distrugge il marito uccidendo i suoi figli. È vero che erano figli di Giasone, ma erano anche figli di Medea. In questa vicenda oscura ma travagliata, ci sono monologhi di Medea che indicano tutta la sua disperazione e incertezza rispetto alla possibilità di uccidere i figli.
“È come se nel nostro mondo mancasse l’attenzione alla possibilità di contemplare le parti oscure della nostra natura. Nel nostro mondo contemporaneo sembra non esserci spazio per gli aspetti terrifici della natura umana, così come accade in un evento naturale di distruttività. Anche nella natura di una madre può scatenarsi il desiderio di distruzione oltre che di creazione. Questo non giustifica l’evento del figlicidio, ma è una premessa per comprendere la complessità dell’argomento“.
Chi può diventare madre amabile se non è stata figlia amata? A questa domanda si collegano tutti i dati in letteratura presenti in questo momento.
“Ricordiamoci che in Italia l’infanticidio è un reato inserito nel codice penale di recente rispetto alla storia. La letteratura psicologica, pedagogica e psichiatrica ha cominciato a muoversi in questo ambito di ricerca in modo sistematico e moderno solo dagli anni ’70“.
“Alcuni dati in letteratura, riportati da Resnik, parlano di un evento multifattoriale, in cui non esiste una sola causa che può portare a un evento così contro natura, ma un insieme di concause la cui presenza congiunta può portare al figlicidio”.
I fattori di rischio risiedono nella domanda posta prima: come può una donna diventare madre se non è stata figlia amata? Questo si collega alla teoria dell’attaccamento, che ci pone nella condizione di amare nella misura in cui siamo stati amati o abbiamo sperimentato l’amore.
“Tornando ai fattori di rischio, la letteratura mostra che non esiste un solo fattore di rischio legato a un passato traumatico o di abusi, ma devono aggiungersi fattori di tipo situazionale. Ad esempio, non è detto che una madre con una storia di abusi debba necessariamente compiere questo tipo di azioni. Tuttavia, se una madre con questo passato vive in un contesto socioeconomico decadente, con disturbi della relazione, e convive con un partner coercitivo e abusante, il quadro diventa un terreno fertile per l’evento“.
I dati mostrano che una minoranza delle madri che uccide il proprio figlio ha una malattia psichiatrica accertata. Nel caso precedentemente citato della madre che ha lasciato morire di stenti la sua neonata, non è stata accertata una malattia mentale e la condanna ha avuto altro esito.
“Se quindi la malattia psichiatrica è solo in minima parte una causa, le altre madri possono essere aiutate dalla comunità. La prevenzione di questi eventi tragici passa attraverso l’aiuto della comunità“.
La letteratura sui fattori di rischio indica che individuare le madri a rischio permette di attuare una serie di aiuti preventivi e sociali. Una delle azioni efficaci è la formazione del personale che entra in contatto con donne in gravidanza. Se il personale ospedaliero e dei servizi sociali riceve una formazione specifica sui fattori di rischio, è maggiore la segnalazione e la presa in carico dei servizi.
“Seguire le madri nei primi anni di vita del bambino è cruciale. La tecnica dell’home visiting, adottata dal 1997, ha avuto successo seguendo le madri a rischio di figlicidio a domicilio. È stato offerto supporto al bambino e istruzione alla madre, nonché un sussidio socioeconomico. Questo supporto è fondamentale nei primi anni di vita del bambino, quando il rischio di figlicidio è maggiore“.
La dottoressa Scalone conclude: “È importante sottolineare un messaggio di speranza. L’amore può intervenire nella vita di una persona, anche se la madre non è stata una figlia amata. Relazioni d’amore sane e sicure possono ancora trasformare una donna, permettendole di diventare una madre migliore. Anche una mater terribilis può diventare una mater amabilis“.
A cura di Enrico De Pasquale e Agata Gamuzza
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