Sport e parità di genere: a che punto siamo?

Sport e parità di genere: a che punto siamo?

ITALIA – L’Italia, oggi, è un paese garante di eguali opportunità, commisurate ai singoli bisogni e/o necessità, che protegge gli indifesi, favorendo le pari opportunità? Lo sport è un veicolo di integrazione sociale, un vettore trainante per lo sviluppo delle politiche sociali?

La nostra riflessione potrebbe iniziare da una constatazione: in Italia abbiamo un ministero alla disabilità, ma non un dicastero dedicato allo sport e poca esperienza di accessibilità sportiva per persone con disabilità. Al netto di personali valutazioni, appare evidente che  la pratica sportiva non venga considerata “essenziale” nel nostro Paese.

Da qui la “polemica” sollevata in seguito alla decisione del governo Draghi di dedicare alla disabilità un ministero, che si è intrecciata con quella, in verità meno vibrante, legata al venir meno di un ministero dedicato allo sport.

Lascia perplessi il fatto che in Italia questi due dicasteri non siano mai stati presenti nello stesso governo, mentre, ad esempio, in Canada si è ritenuto che l’abbinamento di queste due competenze fosse abbastanza impegnativo da dedicare loro un ministero ad hoc

Altra questione reputata non “essenziale” o forse non affrontata con la giusta determinazione è rappresentata dal tema della parità di genere, proprio in un momento storico in cui Thomas Bach, presidente del CIO, dichiara: “CIO è impegnato per l’uguaglianza di genere in tutti i settori. In campo e nei ruoli di leadership nelle organizzazioni sportive. Il Movimento Olimpico si sta preparando per una nuova pietra miliare per creare un mondo sportivo equo dal punto di vista del genere”.

A riguardo, la vicenda della pallavolista Lara Lugli citata per danni dalla società Volley Pordenone, dopo essere rimasta incinta e aver poi subito un aborto spontaneo, si inserisce “perfettamente” in un contesto di scarsa maturità sociale, in un coacervo di pregiudizi discriminatori e decisioni vessatorie.

Nelle domande si celano le risposte che cerchiamo: com’è possibile che nel 2021 ci sia ancora la possibilità di interrompere legalmente un contratto di lavoro perché la diretta interessata è incinta? E come si può arrivare al punto di citarla per danni per “non aver reso nota la sua volontà di diventare madre”

Nel mese di marzo 2019 la giocatrice di pallavolo aveva comunicato al suo club l’impossibilità a proseguire la stagione perché incinta. A quel punto il contratto si era automaticamente risolto dato che le atlete di volley in Italia non sono professioniste e quindi non esiste per loro nessuna forma di garanzia a tutela della maternità. La storia, però, è ben peggiore: Lara, infatti, ha successivamente chiesto alla società di saldare lo stipendio di febbraio (di circa mille euro) che non aveva ricevuto nonostante fosse scesa in campo. 

La risposta del club è stata categorica: respinta l’ingiunzione dell’ex giocatrice, ha provveduto ad inviare alla stessa una citazione per danni. I motivi a sostegno della citazione per danni spiegano perché in Italia siamo ancora distanti dal raggiungere la parità di genere: si va dall’aver taciuto al momento dell’ingaggio la propria intenzione di avere figli, fino all’aver chiesto un compenso troppo alto per la sua età. Chapeau!

La vicenda di Lara Lugli e della sua vertenza contro il Volley Pordenone fa emergere le imbarazzanti lacune normative e morali di un Paese che è ancora colpevolmente in ritardo rispetto alla tutela delle garanzie minime di integrazione sociale. Lo sport dilettantistico al femminile ne rappresenta la più evidente delle testimonianze, di fatto costringendo le donne ad una scelta: o mamma o atleta!

Oggi le atlete italiane che sono riuscite a coniugare lo sport con il proprio lavoro, sono costrette a gareggiare per la maggior parte come dilettanti, in quanto poche federazione permettono loro di accedere ad un’attività professionistica.

Le donne sono sempre escluse a causa dei regolamenti: il caso più eclatante è quello del calcio, ma vale anche per la pallacanestro. Una discriminazione nel mondo dello sport che si aggiunge alla questione economica: quasi tutti gli sport femminili, in Italia, hanno molto meno pubblico rispetto alla controparte maschile e quindi meno “mercato” (economicamente parlando), di quelli maschili, inoltre, le sportive in media guadagnano molto meno dei loro equivalenti maschi. 

Per raggiungere ed ottenere finalmente quella parità di genere cui tutti auspichiamo e garantire a chiunque lo desideri una accessibilità allo sport fondata su principi di giustizia, dignità e meritocrazia, bisogna ancora lavorare tantissimo, partendo da una consapevolezza: lo Sport appartiene tutti, lo Sport siamo Noi.

Avvocato Alessandro Numini