Nel corso dei processi di separazione, divorzio e affidamento di minori, spesso i Tribunali ritengono opportuno che i coniugi intraprendano un percorso psicoterapeutico.
Ciò per rimuovere i conflitti interni alla coppia che inevitabilmente si ripercuotono sui figli, danneggiando la loro vita quotidiana e il loro sviluppo psicofisico.
Prescrizione (o suggerimento) che sottende spesso l’avvertimento implicito di provvedimenti giudiziali sfavorevoli: un rifiuto o una scarsa collaborazione possono essere valutati come condotta genitoriale irresponsabile.
La risposta è no. Lo spiega il Consiglio dell’Ordine degli psicologi della Calabria in un documento approvato lo scorso 18 marzo.
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Con esso il Collegio ha voluto approfondire e chiarire tre aspetti:
Presupposto indefettibile di ogni trattamento sanitario è la scelta libera e consapevole della persona che si sottopone ad un determinato trattamento (ovviamente fatti salvi i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere).
Ogni individuo ha, cioè, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi dell’intervento cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente. È il cosiddetto consenso informato.
Questo trova esplicita tutela negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, nonché in numerose convenzioni internazionali, come quella di Oviedo e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’art. 2 promuove i diritti fondamentali dell’individuo, mentre gli artt. 13 e 32 stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
E ciò vale per qualunque trattamento sanitario, compreso quello di natura psicologica. In proposito, il divieto di imporre percorsi di tal genere è ben espresso e motivato da due pronunce della Cassazione: la sentenza n. 13506/15 e l’ordinanza n. 18222/19.
In definitiva, il Tribunale non può prescrivere alcun trattamento sanitario (sostegno psicologico e/o psicoterapia) alle parti (genitori), nemmeno sotto forma di suggerimento o di invito.
Imporre un percorso psicologico ai coniugi/genitori minerebbe, infatti, il loro diritto all’autodeterminazione e quello alla salute. Perché, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, ha anche il diritto di non esserlo. In caso contrario, il consenso informato risulterebbe viziato.
Senza contare che, perché un simile trattamento sia efficace e non fallimentare, è necessario che sia voluto dalla persona in questione, che per prima deve acquisire consapevolezza del proprio malessere per poi potervi porre rimedio.
Alcuni articoli del Codice deontologico degli psicologi evidenziano le criticità dell’intervento psicologico eseguito per ordine (o su invito) del Tribunale: il rispetto di opinioni e credenze altrui, l’autonomia professionale, il segreto professionale, la libertà di scelta e il consenso informato.
Il divieto di imporre un trattamento, anche sotto forma di suggerimento, vale anche per gli incontri protetti, cioè quelli tra genitori e figli che si svolgono sotto il controllo di uno psicologo di un Servizio pubblico o privato convenzionato. Anche questi, infatti, rientrano nell’alveo dei trattamenti sanitari che richiedono l’acquisizione di un consenso informato libero e non viziato dei genitori.
In definitiva – spiega il Consiglio – il concetto di “interesse esclusivo dei figli” non può tradursi in un “passpartout per tentare di superare la compressione del diritto all’autodeterminazione e alla salute che ogni provvedimento giudiziario del genere produce nella forma e nella sostanza”.
Foto di repertorio
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