“L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio

“L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio

Non è stata una rivelazione ma un meritato riconoscimento a una scrittrice attenta alla cronaca dei tumulti dell’anima, come ha già dato prova con i successi letterari di “Mia madre è un fiume” (2011), “Borgo Sud” (2020) “L’Arminuta” (2027).

Con il romanzo “L’età fragile Donatella Di Pietrantonio ha vinto l’undicesima edizione del Premio Strega Giovani. Il titolo analizza la piaga intorno alla quale ruota il malessere generazionale. Troppo facile puntare il dito all’età appena sorta nell’orizzonte umano.

L’adolescente o il giovane adulto non sono i soli ammantati dalla ferita che fisica non è, ma che pressa il sangue vivo dell’anima verso il fiume di un limbo con nome e cognome. L’età fragile del titolo si riproduce nel plurale di tre stagioni di vita nel circuito del romanzo che sviscera l’inquieto senza data né di nascita, né di morte.

La voce narrante di Lucia legge di sé e della figlia Amanda, giovane universitaria abruzzese trapiantata a Milano con un biglietto di viaggio fallito che la riporterà nella sua storica camera di figlia. La ragazza si rinchiude in un silenzio spettrale che diventa subito respiro allergico al resto del mondo.

“La vita segreta dei figli. Sappiamo che esiste, ma non siamo mai pronti a toccarla. Restano per sempre angeli senza sesso nel chiuso delle nostre teste. Indifferenziati, mai del tutto partoriti”.

Lucia e Amanda. Lucia e Rocco, il padre anziano davanti a una teca di cristallo scheggiato, la stessa dentro la quale vegeta la nipote.

Tre generazioni unite dal terrore di camminare sui carboni ardenti incontrati negli anni, tre vite immobili forse per stanchezza, forse per quel coraggio emigrato a causa di cicatrici mai rimarginate. A nulla è valso ogni tentativo di traslocare la croce del passato a un seppur debole riverbero di luce, ma che comunque promette speranza al futuro nato proprio in questo giorno. Le certezze crollano al primo accenno di ricordo di quel che accadde trent’anni prima in un angolo di paradiso aggredito da un mostro assassino.

“A un certo punto la vita accelera. Dopo resta tutto fissato a un’immagine, un suono del momento. Si torna sempre lì. … Da allora ogni momento delle nostre vite sarebbe caduto in un prima o in un dopo, non c’era nemmeno bisogno di nominarlo, il fatto. Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e perfino morire. Avevo vent’anni, e ancora mi sembrava così facile cancellare un danno. Forse era la mia ultima occasione per crederlo, quella sera, sotto le stelle di fine agosto“.

La fragilità di Lucia torna a galla nonostante la cura del tempo abbia tentato in mille modi di intontire l’eco del trauma subito.



Un giorno della sua età fragile, Lucia scelse di andare al mare mentre tre ragazze coetanee del suo tempo e innamorate dei suoi luoghi scomparvero nella notte del bosco che da quel momento sarà listato a lutto per sempre.

Nel territorio ai piedi del Dente del Lupo, nel massiccio montuoso del Gran Sasso, il 20 agosto 1997 due ragazze furono uccise mentre una terza, Doralice, cara amica di Lucia, sopravvisse solo perché riuscì a fingersi morta.

Le ventenni furono aggredite da un pastore macedone al quale poco prima avevano chiesto informazioni e che dopo aver commesso il delitto non si preoccupò di occultare i corpi, né di darsi alla fuga, tant’è che fu trovato dalle forze dell’ordine dove fino a quel momento aveva vissuto in totale solitudine.

Da quella notte in poi il senso di colpa di Lucia picchiò forte nel battito fuori tempo per l’arrivo in massa dei tanti “se” (che mai hanno salvato qualcuno) collegati al suo ruolo di madre.

Il tragico evento, il rinnovo a scadenza ciclica del senso di colpa, la figlia.

L’unica soluzione possibile trova casa nella catena affettiva che ad ogni singolo anello chiede “presenza” quale unico strumento di salvezza dal tunnel senza uscita. Al lento diradarsi della nebbia cognitiva, le fragilità si accostano a una prima terapia nella mano tesa dell’altro.

Sono tanti i temi sociali interpretati dalla Di Pietrantonio, tutti riconducibili al bene affettivo della famiglia interrogato nelle diverse età, anche se le distanze umorali disegnano confini anziché abbattere quelli di antica costruzione. Ogni ricordo è un disturbo compulsivo della memoria incancrenita nella notte scura. Quando il tempo sembra aver metabolizzato il lutto, all’improvviso da una parola a forma di crepa o da un silenzio avvolto nel vuoto appare un sole macchiato. Di nero.

Non solo l’insulto di un insano destino, da protagonisti i luoghi hanno deviato la direzione felice fino a farla scomparire per sempre. Un luogo che un tempo fu paradiso, in poche ore diventò dittatore del futuro parcheggiato nella sala d’aspetto.

Non è ancora voce diffusa se l’armistizio siglato tra il coraggio e la paura abbia rilasciato licenza al senso di colpa che in trent’anni ha devastato una  fragilità.

sara