È frequente il caso in cui il titolare di un’attività si faccia aiutare dal coniuge o da un parente. A che titolo quest’ultimo presta il suo lavoro? Va considerato in nero?
La Cassazione ha risposto a queste domande con la recentissima ordinanza n. 20904/2020: una donna, che aveva lavorato per lo zio, ha chiesto che venisse riconosciuta la natura subordinata del rapporto di lavoro ed il pagamento di una somma di 177.973,93 euro a titolo di retribuzioni non pagate.
La Corte ha rigettato il ricorso, stabilendo che nel caso di specie il lavoro fosse stato svolto occasionalmente e, dunque, affectionis vel benevolentiae causa. E poiché, in caso di occasionalità, si presume la gratuità della prestazione fino a prova contraria (mai fornita nella specie), la donna non ha diritto ad alcuna retribuzione.
In tali casi, dunque, non si configura un rapporto di lavoro subordinato e non può parlarsi di lavoro in nero.
E’ chiaro che, laddove fossero stati provati i requisiti della subordinazione, la donna avrebbe avuto diritto alle somme.
Perché l’aiuto spontaneo ed occasionale del coniuge si fonda sul rapporto affettivo familiare, oltre che sul principio di solidarietà. Rappresenta inoltre un’obbligazione naturale, cioè morale ed affettiva, ricompresa nei doveri familiari.
L’occasionalità si configura se il coniuge o il parente non supera le 90 ore annuali (altrimenti si rientra nell’ambito dell’impresa familiare).
Inoltre non deve svolgere compiti in maniera stabile e frequente. Insomma, la sua non deve rientrare nell’ordinaria attività di gestione dell’impresa. Ad esempio, è occasionale il lavoro offerto dal coniuge pensionato o da quello impiegato presso un altro datore di lavoro, full time o part time.
Ricordiamo che solo in caso di occasionalità, il lavoro si presume svolto gratuitamente.
Anche se la prestazione è gratuita ed occasionale, il familiare dovrà adempiere agli obblighi assicurativi INAIL, ma soltanto se vengono superati i 10 giorni all’anno di lavoro.
Non sussiste, invece, alcun obbligo di retribuzione né di versamento dei contributi previdenziali.
Chiaramente non sempre è possibile ricorrere all’aiuto di un familiare. Deve trattarsi del coniuge, dei figli, di un parente entro il terzo grado o di un affine entro il secondo grado. In tutti tali casi la prestazione occasionale non va retribuita (sempre laddove sia occasionale). Diverso è il caso del fidanzato o del convivente, la cui collaborazione rientra nel regime del rapporto di lavoro subordinato.
Inoltre queste regole valgono solo per le imprese commerciali, agricole o artigiane. Restano escluse tutte le altre attività.
Che succede quando chi si fa aiutare non ha un’attività in proprio ma è dipendente di un datore di lavoro?
Se quest’ultimo non sa nulla, si configura un caso di lavoro in nero e, come tale, è penalmente perseguibile. Non solo: si viola anche il rapporto contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, che deve svolgere personalmente la prestazione.
In questi casi il datore, nel momento in cui viene a conoscenza della situazione, può inviare una lettera di ammonimento al proprio dipendente, intimandolo a cessare la condotta illecita.
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