Addio a Pippo Baudo, l’Italia che non c’è più

Addio a Pippo Baudo, l’Italia che non c’è più

ROMA – C’è un’Italia che non esiste più, ma che vive nella memoria collettiva di milioni di persone. Un’Italia di sogni davanti alla tv, di famiglie riunite la domenica, di bambini incantati e adulti rassicurati da un volto che sembrava appartenere a tutti. Quell’Italia aveva un nome e un volto: Pippo Baudo.

Oggi che se n’è andato, a 89 anni, non perdiamo solo un conduttore, ma un pezzo della nostra identità nazionale.

Il volto della Rai pubblica

Pippo Baudo non è stato un presentatore come gli altri. È stato il simbolo della Rai come servizio pubblico, la televisione di tutti e per tutti. In un Paese lacerato dalla politica, dalle divisioni ideologiche, dalle appartenenze di partito, Baudo rappresentava un luogo neutro ma non sterile: un’Italia che sapeva ancora stare insieme davanti allo stesso programma, senza urlarsi addosso.

In questo senso, Baudo è stato anche un uomo politico, pur non avendo mai praticato politica attiva. Il suo modo di fare tv era un atto di pedagogia collettiva: sapeva intrattenere, ma anche educare, mescolando alto e basso, popolare e raffinato, leggerezza e cultura.

Un maestro che ha seminato

Ha lanciato artisti, cantanti, comici, ballerine, conduttori: una costellazione infinita che deve a lui l’inizio di una carriera. Non era solo un conduttore, era un seminatore. In ogni programma c’era un volto nuovo da proporre, una scommessa da fare, un giovane talento a cui regalare il palco.

Oggi, in un tempo in cui la televisione è spesso autoreferenziale e chiusa nei suoi stessi meccanismi, quella generosità appare ancora più rara.

Pippo incarnava quell’equilibrio fragile e perfetto: non cambiava mai, era come un orologio che segna il tempo senza fermarsi, finché quel ticchettio si è interrotto.

Sanremo e l’Italia allo specchio

I suoi 13 Festival di Sanremo non sono stati solo spettacoli musicali: sono stati fotografie dell’Italia che cambiava. Dal boom economico alle crisi politiche, dagli anni di piombo alla stagione del riflusso, fino agli anni Duemila, Baudo ha guidato il Paese sul palco dell’Ariston come un cerimoniere laico.

Con lui Sanremo non era solo canzoni, ma un rito collettivo, un atto politico involontario, perché raccontava chi eravamo e chi volevamo diventare.

Il prezzo del coraggio

Non tutto fu semplice: le parentesi nelle tv private, i flop, le critiche, persino le clausole capestro che lo tennero fermo un anno intero. Ma Baudo non si arrese mai.

Rientrò in Rai, spesso grazie a rapporti politici dichiarati (con Ciriaco De Mita, ad esempio), e lo fece a testa alta, con la dignità di chi sapeva che la sua casa naturale era quella televisione pubblica che aveva contribuito a costruire.

Una lezione al presente

Oggi la Rai vive una crisi profonda di identità, schiacciata tra la pressione della politica e la competizione delle piattaforme digitali.

La tv che Baudo immaginava – “plurale, di tutti” come lui stesso disse – sembra lontana, ma il suo esempio resta: un servizio pubblico che non si riduce a propaganda, ma che diventa racconto, intrattenimento e cultura popolare insieme.

L’addio

La morte di Pippo Baudo non è solo la fine di una carriera. È la fine di un’epoca televisiva e culturale, quella in cui la tv univa invece di dividere, e in cui un conduttore non era un personaggio effimero, ma un maestro riconosciuto da tutti.

Oggi l’Italia lo piange come si piange un parente lontano ma familiare. Grazie perché ci ha fatto compagnia, ci ha fatto ridere, ci ha insegnato a credere nei sogni. Perché “Pippo” non era solo Pippo: era l’Italia che ci guardava dagli schermi, era la voce che accompagnava le nostre domeniche, era il volto che ci faceva sentire meno soli.

Ed è per questo che oggi, con lui, se ne va un po’ di tutti noi.