Prima o poi il passato riprende le tracce lasciate in disuso. Sua non è la colpa, tutte le storie che ha presenziato sono state coinvolte in passioni vive fino al giorno dell’ultima sorte. Il presente ha imparato ad adeguarsi al riverbero di luce proveniente dalla fonte nutrita con piccolissime felicità.
“Perduto è questo mare” di Elisabetta Rasy, opera finalista al Premio Strega 2025, condensa in una passerella letteraria un memoir tra passato e presente, da sempre due protagonisti complici-avversari della vita imbevuta di sogno. L’irrealizzato alza la voce nel momento meno opportuno, il più delle volte servendosi di esternazioni non conformi a modelli di decoro sociale. La forza ribelle viene destata dal sonno e riprende le sue attività invise al territorio remissivo dell’anima.
In una Napoli in lenta ripresa dal conflitto bellico, gli anni Cinquanta ritraggono sentimenti riaffiorati in superficie dopo un interminabile cielo di fumo, e sono una, dieci, cento vicende a chiedere udienza con un album di ricordi fissi nello sguardo.
Una figlia scrive dell’uomo che un tempo chiamò padre. Lello, questo il suo nome nell’ambiente domestico, da giovane fu un aviatore militare, il dopoguerra lo ritrova vittima dei sogni, vagabondo estraneo nella sua città, marito svogliato di una donna infelice, Bianca, madre con la valigia verso la capitale. Con lei una figlia. La distanza nutre di giorno in giorno chilometri portatori sani di silenzio. Ci si perde così, nell’assenza di sillabe restie alla formulazione di parole-farmaco per silenzi insopportabili.
“Mio padre era così: il passato era pieno di delizie o di eroismi, il futuro pieno di speranze, il presente una terra incognita in cui era sempre smarrito.
In tutta la sua vita, finché io l’ho conosciuta, c’era stata una gara tra lui e il destino: la guerra, l’amore, il denaro, il lavoro. Lui credeva nella fortuna, ma la fortuna non credeva in lui”.
La scrittrice si interroga sulle colpe, se ci sono, sulle cause che hanno condotto al bivio le radici divelte della paternità.
L’uomo cade in una depressione impastata di sonno come rigurgito dei veleni esistenziali assorbiti durante le lunghe ore di luce. Sopravvissuto alla guerra, Lello non è più riuscito a portare in salvo la vita rimasta.
La Napoli del dopoguerra educa un piano al femminile con i primi zampilli di colore di quello che un giorno sarà un irripetibile dipinto. Se la cornice non sarà manipolata da una ipocrita illusione, Elisabetta Rasy scriverà di una donna allo specchio avuto in prestito dal maestro di bellezza Dorian Gray.
“Tornando a Roma sapevo benissimo che ormai il regno paterno apparteneva al mondo di ieri, parola che sembra indicare un tempo vicinissimo, quasi ancora raggiungibile, e invece racconta perentoriamente l’irreversibilità del passato”.
Poco conta se una raffica di vento qualsiasi tenterà la distruzione definitiva di un rapporto filiale già compromesso. Il futuro viaggia sulle orme indelebili del passato, tutte le prove del salto oltre infinite distese di silenzi sono andate a vuoto. La memoria giace nell’ora in cui la sua medaglia d’onore è stata violata da un dialogo illusorio con l’assenza.
Il romanzo allarga il campo figurativo a un terzo protagonista cultore di memorie autografate da una lunga amicizia con Elisabetta Rasy. L’evoluzione narrativa si arricchisce con l’entrata in scena dello scrittore Raffaele La Capria che, con il padre di Elisabetta, ha condiviso non pochi segmenti di vita: i due uomini vivono da cittadini-turisti nella città di Napoli e i suoi disparati tentativi di sanare le cicatrici firmate dall’evento bellico.
“Di Napoli non avevo mai più parlato con nessuno, fino a quando ero diventata amica di Raffaele. Perché per entrambi la città non era quella pittoresca, né quella ribollente e noir, tantomeno la vitale ed eccitata Napoli di oggi in cui tutti vogliono andare, un ininterrotto teatro della meraviglia. No, la città a cui entrambi pensavamo parlandone era una città da cui tutti se ne andavano, un mare meraviglioso da cui tutti fuggivano, l’immagine perfetta delle illusioni perdute, un incrocio tra rifiuto e rimpianto”.
Raffaele La Capria aveva “la letteratura, che praticava con una dedizione monastica, così come un monaco deve trasformare tutte le azioni della giornata in preghiera, era il suo esilio“. Lo scrittore scomparso nel 2022 instaura una solida amicizia con Elisabetta Rasy, figlia di altro seme che però trova in lui un padre supplente vestito di interessi, letteratura, amore per il mare condiviso con uno sguardo naufragato nella confidenza.
Napoli acconsente a quel quotidiano contatto con l’onda matura che, fingendosi parte attiva di tempesta avvolgente, sta solo aggiustando l’anima in avaria. Il mare di Napoli incoraggia, rinnova il biglietto di ritorno a nuoto delle emozioni orgogliose di essere sopravvissute. Uno, due, più quesiti con relative soluzioni a passo di gambero si definiscono nelle mani di una sorgente di vita, un padre, un oceano di cultura, lo scrittore Raffaele La Capria. Insieme distinguono un romanzo generazionale assembrato nel coro a tre voci dei vissuti nella signora città di cielo e di mare.