Il passato incombe sul presente con una sfrontata alterigia carica d’odio su quanto fatto o detto, orgoglioso di aver simulato la dissolvenza nella dimensione che ospita lo scheletro di una lancetta.
L’inizio e la fine di ogni cosa subiscono la malìa del tempo. È facile intuirlo nell’effetto fantasma che ad ogni ora diventa sempre più strascico di un incantesimo senza fine.
Due vite, un lui e una lei. I nomi non sono stati previsti. L’ agonia della pace si identifica nella perdita della vista per lui, un uomo di mezza età prossimo alla notte dello sguardo, professore di greco offeso da un eterno lutto provvido di parole.
Le esequie del linguaggio furono aperitivo di morte per lei, ombra di pelle rosea vestita di nero, vittima claudicante nella parola a causa della scomparsa della madre e la perdita della custodia del figlio. Due croci sovrapposte hanno tramato contro la luce di uno sguardo in esilio per sempre. Vent’anni prima il destino decise che un incubo potesse trovare il coraggio di lasciare un letto sfatto, e nelle ore di sole firmare il martirio dell’anima.
“L’ora di greco“ (Adelphi) del Premio Nobel per la Letteratura 2024 Han Kang si pone come un laboratorio virtuale in cui prototipi di cristalli di luce vincono la battaglia della parola assente. L’immagine costruita su frammenti di passato perde equilibrio ogni qualvolta l’eco della perdita ritorna nei sensi adattati alla notte di silenzio. Le due infermità influenzano le solitudini cristallizzate nel vuoto di percezione che non ammette futuro, un anticipo di fine impara a fare a meno di ciò che un tempo la ragione non avrebbe accettato.
Accecata dal silenzio lei, sordo al venir meno della vista lui, la mescolanza dei sensi in caduta libera confonde l’ordine che la natura ha donato. Quale dei due lutti impedisce la comunicazione?
Il corpo conserva scorte di parole utili alla guarigione di fragilità che da sole non vincono la percezione di ogni singolo contatto. Un costante flusso di memoria riversa nell’apparato biologico l’itinerario delle umane comprensioni, ora attivo, ora disinnescato a causa di una disabilità sensoriale, ma un tale patrimonio di vibrazioni non può venir meno con delle velature di nebbia oltre la finestra sul mondo.
“Lei si limita ad osservare. Osserva, e non traduce nulla di ciò che vede in linguaggio. Nei suoi occhi prendono forma continuamente immagini di oggetti che si muovono e si dissolvono al ritmo dei suoi passi, senza mai tradursi in parole“.
Al lettore spetta l’interpretazione di un testo criptico al primo incontro, ma che il salto oltre la scenografia allestita sul significato filosofico indebolisce l’impedimento dell’umana comprensione.
Tutto può la conoscenza estranea al sé vissuto e cresciuto nella consuetudine amante del rito.
Lui adolescente senza nome si è trasferito in Germania e poi è tornato in Corea del Sud. Le prime pulsioni d’amore per la figlia di un medico tedesco riverseranno una poetica intimità sulle lettere afone ma solo di voce.
Lui insegna greco, la lingua morta che la donna vestita di nero elegge a modello di rinascita sensoriale, la consolazione rincorsa tenendo in petto la croce quella sì, con nome e cognome. Il linguaggio ritroverà una qualunque via d’uscita dal labirinto causa ed effetto del silenzio sceso a patti con i ricordi.
L’egemonia della parola si estende oltre il perimetro fisico e psicologico, due trascurabili approdi rispetto al passaporto indispensabile per viaggiare nel mondo: oltre a ciò che il corpo contiene e per certi versi espone, esiste un linguaggio rappresentativo di dialogo con una fisicità assente che però riporta ai dogmi della lingua greca.
“Le parole annotate alla fine del diario si rimescolavano liberamente come dotate di una volontà propria, dando forma a frasi sconosciute. Ogni tanto, parole aguzze come spiedi le trafiggevano il sonno e si svegliava di soprassalto, a più riprese nell’arco di una stessa notte. Meno dormiva, più i suoi nervi si facevano pericolosamente sensibili; a volte, un dolore indescrivibile le comprimeva la bocca dello stomaco come un ferro rovente. Ma la cosa più penosa di tutte era che sentiva con una chiarezza agghiacciante ogni singola parola che le usciva di bocca. Perfino la frase più banale lasciava intravedere con la trasparenza del cristallo perfezioni e imperfezioni, verità e inganno, bellezza e bruttezza. Lei si vergognava di quelle frasi, che si dipanavano bianche come ragnatele dalle sue mani e dalla sua lingua. Le veniva da vomitare. Le veniva da gridare“.
“L’ora di greco” antico di voce come sottofondo al lento incedere del passato costruisce nido al silenzio sofferto del linguaggio.
Han Kang adatta al pensiero moderno l’immobilità di una lingua in stretta competizione con il mutismo solitario e sottile della protagonista.
A tratti rarefatto si mostra il dialogo, a volte inefficace per quel suo modo di opporsi alla mappa segreta della memoria.
Del resto, non è forse eletta virtù della calamita accogliere e mai respingere? Quale sia la radice del linguaggio serrato la ripresa dell’arte comunicativa non tarderà ancora per molto. Ci sarà un’altra prima volta di una lingua responsabile di far ritrovare la strada di casa dietro somministrazione di un’ora di greco.