“La vegetariana” di Han Kang

“La vegetariana” di Han Kang

Il 10 ottobre l’Accademia reale svedese ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura alla scrittrice sudcoreana Han Kang che, con il romanzo “La vegetariana”, è entrata nell’Olimpo della letteratura mondiale con la seguente motivazione: “Per la prosa intensamente poetica che si confronta con i traumi storici e che rivela la fragilità della vita umana e per la sua consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, tra i vivi e i morti, e perché con il suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice della prosa contemporanea“.

Credit foto Google/Ibs

Pubblicato per la prima volta nel 2007 in lingua originale, tradotto in Italia per Adelphi nel 2016, il romanzo che ha conquistato il Premio Nobel accoglie l’incipit con un incubo, quello della protagonista che, colpita nelle viscere di un improvviso disagio mentale, smette di mangiare carne. Da quel momento il suo corpo divorerà la sua stessa carne, nutrendosi di un pensiero ossessivo che si ostina a diventare sinonimo di morte.

Alla voce della protagonista si aggiunge l’eco non meno potente dei suoi affetti più cari. Due uomini imprecano contro quella decisione folle di lasciarsi manovrare dall’inganno che non avrà pena per quello che è ormai un corpo passivo.

SuIla giovane Yeong-hye il marito esercita un potere che mai vorrebbe sollevare da terra l’ala inferma di un insetto. Il signor Cheong è il secondo della lista di uomini che su Yeong-hye hanno usato violenza senza neppure sfiorarla con un dito. Primo fu il padre, un tiranno che nella figura femminile individuò l’oggetto del possesso da ridurre in una condizione di moderna schiavitù.

Un uomo mediocre porge e dice ciò che non deve dare e dire, la sua è una presenza sanguisuga che alimenta la nevrosi vicina, troppo vicina alla follia. Non luci ma ceri accesi su quel matrimonio infelice accompagnano la moglie al baratro paradossalmente reso fruibile da chi avrebbe dovuto allontanarlo per sempre.

Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno. […] Tuttavia, pur non avendo attrattive speciali, non presentava nemmeno particolari difetti, e quindi non ci fu ragione di non sposarci“.

Alla prima figura maschile intorno a Yeong-hye se ne affianca un’altra, forse più inquietante. L’ entrata in scena del marito della sorella aggiunge elementi spregiudicati a quel residuo di dignità che resta alla povera Yeong-hye. Quello che all’inizio si configura come una bolla traboccante di fantasie carnali, alla naturale scadenza dei sensi sottoposti all’uso e abuso, il baratto dei corpi si rivela essere un turbamento sessuale assai vicino alla patologia.

E l’amore manca. E l’affetto non è mai stato così in sintonia con l’ambizione invisibile del suo corpo. Non resta che sparire nel nulla giacché nessuno l’ha mai guardata, a malapena è stata vista per vizio distorto del maschio (prima stesura di un uomo).

A questo punto il labirinto è pronto affinché Yeong-hye recida tutti i fili che la legano al mondo. Non è questo il vestito di pelle per le anime sorprese dai brividi una mattina di primavera.

Intanto il lettore che non è stato preparato alla mappa di un inferno mentale si concede una pausa disposta ad accompagnarlo all’uscita del tunnel dentro cui è stato trasportato. L’ incipit del libro non ha avvertito che di lì a poco le pagine avrebbero gridato follia, eppure i presupposti per la rapida ascesa del precipizio mentale c’erano tutti. L’ apatia non è stata segnalata come il primo stadio di un disagio in incubazione che col tempo avrebbe impedito al bruco di diventare una leggiadra farfalla.

Non era né triste né assente, come ci si sarebbe potuti
aspettare da una malata. Ma non era nemmeno allegra o spensierata. Era il tono
calmo di una persona che non appartiene a nessun luogo, di qualcuno che è
entrato in una zona di frontiera tra diversi stati dell’essere.
C’era un che di vagamente inquietante nel sorriso discreto che danzava sulle labbra di Yeong-hye. Sembrava che si stesse ritirando da se stessa, diventando distante da sé tanto quanto lo era dalla sorella. Una faccia disperata dietro una maschera di compostezza“.

L’ astinenza dagli abbracci ha ricevuto cura da In-hye, sorella di una foglia staccata dal ramo, nell’estremo tentativo di far riprendere il volo a due ali forse segnate per sempre. Non c’è mai stata una richiesta d’aiuto, nessuna mano tesa con la preghiera di ritorno dal viaggio fuori dal corpo. Yeong-hye ha negato il cibo seminando in ogni suo gesto frammenti di parole incomprese. Diventerà un vegetale perché l’allucinazione cerca di comprendere più dell’uomo, un essere a giorni alterni umano.

Non ho bisogno di questo genere di cibo, sorella. Ho bisogno di acqua“.

Lontano dal volersi presentare come un’ analisi della mente, il romanzo di madre orientale riunisce attorno al tavolo che non c’è gli effetti nefasti dell’universo femminile pressato dal rigore della cultura orientale. Tanta pietà per il rosso sangue del regno animale graziato da una donna in fuga dal futuro, il suo, e nessun pentimento da chi il fuoco scarlatto lo ha appiccato sulla pelle di una giovane raggirata dalla vertigine esistenziale. Da uno scatto a colori di consanguinei votati a ogni forma di assenza, nella notte la carne andata a male cuoce a respiro spento.

sara