Luis Sepúlveda ci ha lasciato lo scorso anno. Cileno di nascita è stato uno scrittore, poeta, regista, nella sua lunga carriera letteraria ha collezionato riconoscimenti in tutto il mondo. Poesie, romanzi e racconti costituiscono il testamento di uno scrittore che, per il suo Paese, è stato un guerriero di pace ogni giorno della sua vita.
Attivamente impegnato in primo piano alla vita politica del Cile, nel 1973 a causa del colpo di stato militare di Pinochet, Sepúlveda conosce la realtà del carcere, ritrovando la libertà dopo 7 mesi con l’intervento di Amnesty International.
Come difensore dei diritti civili ha tracciato la sua filosofia di vita in parallelo alla sua essenza di scrittore. Nel 1977 lascia il suo Paese per un percorso a tappe in città e stati del continente quali Buenos Aires, Paraguay, Uruguay, Ecuador.
Per 5 anni matura un’esperienza straordinaria collaborando con Greenpeace, prestando servizio sulle navi fino al 1987. Nel 1989 il suo rientro in Cile coincide con la data di pubblicazione del suo primo romanzo “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore“. Una favola, un romanzo, al termine della lettura di questo capolavoro non si riesce a darne una rigorosa definizione. Dal 1996 al 2020 vive in Spagna dove si spegne il 16 aprile per aver contratto il Covid-19.
La foresta amazzonica è un sipario aperto sul breve ma profondo racconto tra i più amati di Sepúlveda. Un’immensa distesa di terra vergine maltrattata dall’uomo accoglie il romanzo ambientato negli anni ’60 del ‘900, il lettore viene immerso in una dimensione lontana anni luce dal suo spazio di sicurezza domestico. L’avventura accende emozioni che ci accompagnano dalla prima all’ultima pagina, dimenticando le pareti di protezione elette a scudo di subdole avversità dell’esistenza. L’ossigeno del polmone verde è soffocato dal figlio della terra che lo ha partorito, poi da lui massacrata senza pietà.
La foresta amazzonica è abitata dagli indios shuar, la stessa foresta è distrutta dai gringos, cercatori d’oro, vittime della loro sfrenata ambizione. I gringos falciano la natura, imbrattano il capolavoro di Dio, non hanno pietà di seminare morte e sofferenza. L’ultimo dei loro trofei disumani è stato l’assassinio dei cuccioli di tigrillos, felini dalle pelli pregiate. La madre dei cuccioli è disperata, vaga per la foresta gridando il suo dolore, tutto il paese la teme, la caccia al pericoloso animale è aperta. Il sindaco di El Idillio conosce il coraggio del vecchio Antonio Josè Bolivar, così lo convince a unirsi alla spedizione impegnata nella caccia del pericoloso felino.
Il racconto scorre tra un dialogo e un duello, il vecchio e il tigrillo. Antonio Josè Bolivar non vuole ammetterlo ma ha paura. Interroga se stesso senza trovare una risposta a quella strana inquietudine. Intanto la sua capanna non è più sicura, il felino si aggira a distanza lungo il perimetro del piccolo paese seminando il panico tra gli abitanti. Il vecchio è confuso, la ragione gli impone prudenza, lui non è mai stato un cacciatore, quelli uccidono plagiati dalla loro stessa paura, l’anima marcia è l’unica che possiedono.
Ubriachi di odio verso la madre terra che li ha partoriti e che adesso, ingrati, disprezzano. Quelle poche volte che Antonio Josè Bolivar ha impugnato il machete è stato per difendere un ragazzo offeso dall’attacco di un’anaconda o per proteggere uno stregone shuar. Anche se ormai è stato individuato dal mirino, il tigrillo è riparato dalla fitta vegetazione, la pioggia cancella le impronte, cauti passi nel fango, zampe prudenti. L’animale grida il dolore del mondo calpestato da figli indegni, mai sazi di tasche d’oro. Maledette ambizioni figlie di un demone mimetizzato nel circuito di una vena, carne e ragione non possono fare a meno di dare alloggio a brutture, è già pronto il crollo di una conquista spogliando una pelle innocente.
Con astuzia il tigrillo cerca di anticipare ogni mossa del vecchio per sorprenderlo, ma il dito sul grilletto riversa l’animale a terra. In pochi secondi Antonio Josè Bolivar aggiunge anni ai suoi anni, si avvicina al felino esanime e lo accarezza teneramente. Con il volto rigato di lacrime getta nel fiume la sua doppietta, “bestia di metallo odiata da tutte le creature“. Imprecando contro tutti e soprattutto contro se stesso si avvia lentamente verso la sua capanna, ad attenderlo ci sono i romanzi d’amore. Antonio Josè Bolivar sa di aver spezzato l’equilibrio del pianeta, sa di aver ucciso una madre già morta. Il dolore per aver perduto i cuccioli l’ha resa pericolosa perché un cuore ferito stravolge il suo battito, il quieto fluire della natura è venuto meno, la sua vita era già straripata nella valle della morte.
El Idilio è un piccolo paese attraversato da un fiume sulla cui riva vive in una capanna Antonio Josè Bolivar. La vita non è stata gentile con lui, violente febbri malariche uccidono la moglie, adesso il ricordo della sua sposa vive dentro una vecchia cornice appesa al muro, venerata come una reliquia. Bolivar sceglie di vivere isolato dal mondo con il conforto della sua sola passione: la lettura di romanzi d’amore.
“Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse, e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito. Poi faceva lo stesso con la frase completa, e così si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine. Quando un passaggio gli piaceva particolarmente lo ripeteva molte volte, tutte quelle che considerava necessarie per scoprire quanto poteva essere bello anche linguaggio umano”.
La lettura però non offusca la sua appartenenza alla foresta, il vecchio ne custodisce i segreti, lui sa che non esiste limite alla crudeltà umana, troppe volte è stato testimone di azioni cruenti. Antonio Josè Bolivar ha vissuto tanti anni a stretto contatto con gli shuar, la tribù di indios, da loro ha imparato la legge mai scritta della foresta, il rispetto verso la più piccola pianta selvatica, le grandi foglie di banano, vene di ruscelli impazienti di sposarsi al fiume, calde sfumature di un verde mai uguale.
Bolivar siede sul suo equilibrio, sa leggere ma non sa scrivere, la comprensione di una parola scritta gli richiede diversi minuti d’impegno. Le pagine dei romanzi lo riportano alla culla della vita, quanti arcobaleni da vivere, quanti fiumi di ore fresche da attraversare. La lettura è ormai l’unica medicina di un vecchio ai margini del suo mondo, un vecchio ormai antico, un protagonista dimenticato. “Sapeva leggere. Fu la scoperta più importante di tutta la sua vita. Sapeva leggere. Possedeva l’antidoto contro il terribile veleno della vecchiaia. Sapeva leggere.”
Antonio Josè Bolivar è un uomo stanco di combattere le battaglie di una guerra contro i predatori della natura, ma dentro di sé viaggiano ancora zampilli di fuoco addormentati sotto la cenere del vissuto. Nel cuore di Antonio Josè Bolivar batte lo spirito d’avventura di Luis Sepúlveda, fervente ecologista, avvalendosi di strumenti familiari a uno scrittore : le parole. Il suo viaggio “nel mondo alla fine del mondo“, il Cile, nella terra dove l’uomo dimentica di esserne figlio per indossare la maschera di predatore della natura, distruggendo il pianeta e se stesso.
Il libro è stato appena consumato e chiuso, chiedersi se il vecchio Antonio Josè Bolivar sia esistito o no è inevitabile, come lo è paragonarlo al personaggio cameo di un film che non gli appartiene. La foresta è stata teatro di un’azione sospesa dalle pagine che sussurrano storie d’amore, inclini a emulare prove di primavera durante la pausa di un temporale. Stranezze di scrittori audaci. È tutto un opposto, è tutto un contrasto, Luis Sepúlveda ha disegnato la vita.
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