Alla lettura del nuovo romanzo di Andrea Bajani ci si deve abituare. L’impatto causa vertigine, la scrittura assomiglia al girotondo senza il gioco, caro lettore stiamo per entrare in un labirinto, ne usciremo certamente, ma come? E se invece ci perdessimo? In quel caso non chiamarla disgrazia ma benedizione, la conoscenza di sé attraverso un libro è un saggio di psicologia non scritto ma sperimentato dopo la scossa dello smarrimento. Prima di emergere, il tuffo nella voragine è necessario.
L’anomalia di un libro senza nomi propri di persona lo isola dai suoi parenti di carta, in cattedra solo una processione ripetuta più volte di “Io, Moglie, Madre, Padre, Sorella, Nonna, Bambina e Tartaruga”. Come se il nome fosse superfluo, il titolo meritevole di un secondo posto all’ombra della medaglia d’oro spettante al ruolo rivestito nella famiglia.
Culla, nido, grembo, sono case senza tetto e senza mattoni ma riparo e ristoro per fragilità da medicare. La casa è testimone di cascate di lacrime e gocce di sorrisi in un alternarsi di giorni e di anni, sbalzi di una temperatura viscerale peggiorano la condizione di umori confusi, sul divano o sul letto manca sempre un abbraccio da far bastare. Nelle case vive l’eco di voci in affitto tra le pareti abili a imbrogliare il tempo, solo il terremoto le distruggerà, la parola invece sarà silenziata dalla morte.
“Io” è lo scrittore Andrea Bajani che con questo romanzo firma l’autobiografia dello spazio che lo ha travolto, coinvolto, del vuoto che lo ha colmato. Le case al plurale perché obese di centimetri imparati a memoria, le lunghe sere non saranno mai isole da sole, la geografia delle camere è tracciata sul libro tempestato di pagine, il libro delle case di anime sensibili, rare.
L’identità di “Io” è data dall’apertura di un forziere di ricordi. Lettere e fotografie ingiallite disturbano il sonno mai sogno, di carta ma non solo, pergamena di tempo rilassato o nervoso sopra metri quadri accoglienti al primo saluto, severi nel doloroso momento dell’addio.
Al sigillo della porta, la casa non resta mai nel giaciglio in cui è nata e cresciuta, s’inventa ruote con raggi di sole, strappa le sue radici di cemento e viene via con “Io”. L’addio a una casa è lutto di una voce registrata con il difetto di una ripetizione balbuziente, ma grata della sua prigione sulle labbra perché innamorata dell’alfabeto di ogni carezzevole ricordo.
Roma, Londra, Parigi, camere di case incontrate e vissute, “Io” illustra con cura l’itinerario del suo passaggio, ogni dettaglio è sotto il riflettore della memoria cristallizzata in uno spazio di tempo, forse breve, forse no, ma sicuramente indelebile. La casa, come l’amore, il primo, è un concerto ad una voce, una. La replica è una fotocopia sbiadita, il ritornello assillante che storpia la virtù della canzone.
Le prime camere e le prime mani, le prime porte e le prime braccia sono pentagrammi gremiti di note che, quando le abbandoni, la musica cerca e trova il suo santuario in un’intercapedine segreta a tutti, nota dalla chiave di violino travestita di fremiti eletti a colonna sonora di tutta una vita.
Una singola mattonella basta per celebrare l’impronta umana convertita in tatuaggio dello spirito, metamorfosi da crisalide a farfalla, l’attesa è lunga ma dilata la vibrazione generata dal cambiamento.
Madri, padri, figli, parenti stretti come catene o lontani come la luna, presenze in movimento attorno ai tavoli, sedie occupate, sedie ingombrate, sedie vuote. Domeniche apparecchiate da sorrisi puri, sorrisi astiosi, di plastica. E intanto dentro le case, circondata da una cintura di pareti, la vita implode.
Andrea Bajani divide il suo romanzo in porzioni, rateizzandolo in camere e capitoli, segreti di case dove il tetto è un imputato chiamato a deporre davanti al giudice domestico, la convivenza. Lo scrittore interroga i mobili, i ricordi, la voce, la felicità, l’amicizia, veste d’anima gli oggetti solo apparentemente muti, custodi di parole obbedienti al silenzio imposto dalla loro condizione di cose.
La fede nuziale è “La Casa del persempre”, un cerchio d’oro dalla circonferenza di 7,28 cm e un diametro di 2,37 mm, per un peso complessivo di 4 grammi. Due piccoli ingombri attorno ai quali ruota il mondo di Io e Moglie, i cui nomi incisi all’interno decidono la posizione più o meno comoda da adottare, ma soprattutto complici di un’intesa straripante, quella dell’una con l’altra.
“Si aggiungono pochi dettagli sull’interno. Soffitto e pavimento sono la stessa curvatura: non c’è soluzione di continuità tra ciò che sta sopra e ciò che è sotto. È un unico flusso, è spazio in eterno movimento: ogni millimetro rincorre il precedente, senza una vera intenzione di passarlo. Il futuro è il pifferaio dietro cui sfila ogni minuto già trascorso”.
Nella casa del persempre “Io” è inquilino non di un tetto di tegole allineate ma di un testimone d’oro. Al suo interno c’è un vuoto da colmare con nessun armadio e nessuna sedia, c’è da proteggere con cura quel centimetro di girotondo al centro del suo giorno, preziosa bussola per mai perdersi, guida paziente per ritrovarsi.
“Casa di Tartaruga” è un monolocale proprietà di Madre Natura, dalla schiusa al processo di decomposizione è identico l’alloggio, nel carapace tutta la sua vita, nel carapace tutta la sua morte. “Casa di Tartaruga” non ha mai conosciuto la fretta di andare o di tornare, nella lentezza il suo vivere è eterno.
Dal pavimento al tetto la valutazione della geometria di una casa consiste nella misurazione di lunghezze e larghezze, numeri sterili. La poesia evocata da dieci o cento metri quadri interrompe il calcolo, quale deliziosa misura è il centellinare del tempo.
L’attenzione di Andrea Bajani è tutta nella storia del calpestìo su quel pavimento, ad ogni passo un verso attende la sua stesura, perfino la virgola accresce il suo valore, forse è lì per sottolineare l’avanzare incerto di Casa di Tartaruga o quello di Nonna, entrambe arredo perpetuo. Il persempre di “Io” è un persempre anche mio, anche tuo.
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