Nel 2025 la testimonianza di una donna sopravvissuta all’Olocausto mantiene vivo il filo della memoria che non si è mai arreso al ciclo indifferente del tempo. La giornalista e scrittrice Daniela Palumbo ha raccolto il ricordo lucido di Liliana Segre, due occhi aperti sulle ceneri del mondo nonostante la morte l’abbia sfiorata più e più volte.
“Fino a quando la mia stella brillerà” edito nella collana “Il battello a vapore” è chiaramente indicato al seme dell’adolescenza lontano dalla comprensione matura degli anni non ancora compiuti.
Nessuno ha letto il memoir con la carta d’identità in mano perché l’orrore dell’Olocausto non diventerà mai cenere da smaltire con una folata di vento in un giorno dimentico del proprio ieri. Dall’esclusione dai banchi di scuola di una bambina di otto anni comincia la lettura di un libro ambizioso di diventare storia del marcio umano diffuso a macchia d’olio dall’indifferenza nel “prossimo tuo come te stesso“.
Presto, molto presto, la piccola Liliana orfana di madre non rivedrà mai più il suo papà rapito da mani troppo bianche per credere che in esse circolino vene preposte alla vita di un grembo benevolo
“Era una sera qualsiasi. Stavamo a tavola. Io, papà e i nonni. Io ridevo e scherzavo come al solito. Però mi accorsi che c’erano tre paia d’occhi che mi guardavano ansiosi. (…) In quel momento mio padre parlò: “Liliana, sai che non puoi più andare a scuola…” “Ah, no?” gli dissi cercando un perché con gli occhi smarriti. Lui lo capì. “Perché ci sono delle nuove leggi per noi che siamo ebrei. Tu, come tutti i bambini ebrei, sei stata espulsa dalla scuola.” Espulsa. Avevo appena compiuto otto anni, era settembre e la scuola cominciava il 12 ottobre“.
La promulgazione delle leggi razziali del 1938 accelera la fuga dell’atmosfera di pace che a bassa voce il preavviso di morte subisce violenza il 30 gennaio 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz. Liliana bambina cresciuta in un perimetro di amorevole pace impara in fretta a distinguere il rumore di chiavi che aprono e chiudono cancelli dietro cui si consuma il respiro.
Ad Auschwitz l’addio alla vita di un uomo comincia dal primo passo oltre il muro premonitore di fosse comuni. Tutti umani, nessun fratello uomo supera il suo metro d’inferno, sono tutti prigionieri nella cella di futuro scaduto. Migliaia (milioni?) di scheletri si muovono in balìa di un ordine deciso su carta assetata di sangue.
“Alla fine della giornata il mio mondo di fantasia, al quale mi aggrappavo per “fuggire” dal campo, era diventata una piccola stella che vedevo in cielo. Sempre la stessa […] Da quella sera, ogni giorno quando arrivava il buio la cercavo, le parlavo. […] Vedendola, dentro di me le dicevo: “Finché io sarò viva, tu, stellina, continuerai a brillare nel cielo. Stai tranquilla, io non morirò. Io sarò sempre con te“.
Una ad una le stelle smettono di brillare sotto l’ira del nemico che legifera sentenze di morte. Davanti allo specchio della verità il tempo delle favole rimane sogno inghiottito nel bosco in cui il lieto fine non sarà annunciato.
Si racconta la follia umana affinché nemmeno un decimo dell’orrore possa sfiorare il giorno dopo un’alba di finta pace, come fu che dal seme di una battaglia in poco tempo crebbe una foresta in guerra seviziata da una mente fuori controllo.
In ciascun sopravvissuto le immagini della crudeltà umana hanno devastato l’equilibrio dell’anima in cerca di risposte che né labbra né libri sono riusciti a dare, e la normalità non ha più saputo quale direzione prendere per paura di essere, ancora, oggetto del male.
Liliana Segre ormai donna si prende del tempo prima di raccontare al mondo le acrobazie mentali di un sopravvissuto annientato in ogni cellula che lo compone. Una complessa elaborazione del lutto chiede ascolto all’orecchio sordo per aver dichiarato guerra alla memoria rasa al suolo, forse per sempre.
Il viaggio di ritorno dall’inferno tiene in pugno una dignità risorta con un numero tatuato sulla pelle che comunque non riuscirà a dissolvere il giogo dell’indifferenza che ha alimentato il fuoco sulle carni innocenti senza nome. Nella soffitta mentale se ne sta nascosto un assordante silenzio incontrato durante l’espiazione di un peccato fantasma, immagini di volti esangui restituiscono un battito d’addio ripetuto un inferno di volte.
Mai più pagine bianche macchiate di storie in debito con un racconto autobiografico denso di affetti immortalati nei ricordi a colori, tante le righe al pubblico di ogni sopravvissuto alla Shoah imbarcato su una stella in missione di parole maestre. Brilla la speranza del “mai più” gridato ad un miracolo che non avvenne.
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