“Finché il caffè è caldo” di Toshikazu Kawaguchi

“Finché il caffè è caldo” di Toshikazu Kawaguchi

La parola d’ordine è “in tempo”. Il precetto disobbedito fin da bambini viene dettato con il rigore di un compito in classe, tutti seduti davanti al battito del tempo, il voto lo darà la vita. Nessun uomo può dirsi libero sebbene viva lontano da sentenze di sbarre, la giacca stretta del ì calendario lo veste e lo investe, risulta vano ogni tentativo di fuga perché lui è nato ostaggio del carceriere tempo.
ì Il giudizio del pubblico è unanime. Il romanzo di Toshikazu Kawaguchi è stato il successo editoriale del 2020. Con un milione di copie ì vendute in Giappone e 100mila in Italia il libro confessa il dramma dell’umanità in ritardo. “La farfalla non conta gli anni ma gli istanti: per questo il suo breve tempo le basta“. Sigillo spirituale del poeta indiano Rabindranath Tagore.

Il tempo. Siamo circondati da quadranti e lancette eppure ne sconosciamo il sacro valore. Gioiello possibile del ricco e del povero, del bambino e del vecchio, il tempo se ne va in giro certo di non perdersi. Il valore di una clessidra non è stimato dalle gocce di polvere, sabbia o impalpabili corpuscoli d’oro che importa? La discesa segue il ritmo di un valzer con movenze sinuose per ingannare il tempo del viaggio. Cipria sottile ma decisa a sfidare la forza di gravità e giù in fretta, della prontezza ne ha fatto un dogma, rimandare è assai pericoloso. Tic tac, squilla la voce di un appuntamento segnato sull’agenda del fare, ogni poi accetta il rischio di non accadere mai.

La maggior parte dei rapporti nasce in buona salute, alcuni di questi non saranno mai inquilini del mondo, mesi e mesi di gestazione archiviata per colpa di un’occasione perduta. La causa dell’aborto è da ricercarsi nel fallimento del promemoria latino “Hic et nunc“.
Qui ed ora” eleva il presente sul podio sprovvisto di secondo e terzo posto, senso e ragione uniti allo scopo di sublimare l’adesso. Una leggenda giapponese attraversa il continente per essere divulgata nel resto del mondo. Solo due elementi per confezionare la favola grottesca: una sedia e un caffè caldo. Rigorosamente caldo.

Una caffetteria di Tokyo serve un caffè riparatore delle relazioni con patologie mal curate, sintomi di noncuranza ostinati a pernottare sulla superficie del fatuo chiedono soccorso, quando invece inabissarsi a capofitto è l’urgenza di ogni adesso, sinonimo e mai contrario del padrone tempo. Avvicinarsi al rito profano richiede alcune regole da seguire, una sedia e un caffè non bastano per guidare il ciclo delle lancette magiche, la leggenda scrive a voce ogni piccolo dettaglio.

  • “Prima regola: Le uniche persone che si possono incontrare nel passato sono quelle incontrate nel caffè.
  • Seconda regola: Qualunque cosa si faccia quando si è nel passato, non si può cambiare il presente.
  • Terza regola: Per tornare nel passato, bisogna sedersi solo e unicamente su quella sedia.
  • Quarta regola: Quando si torna nel passato bisogna restare su quella sedia e non ci si può muovere di lì.
  • Quinta regola: C’è un limite di tempo”.

Quattro storie e non quattrocento e non quattromila, ad evitare una folla di pagine dirette ad un semaforo che congela il presente, triste stazione di un viaggio smemorato di mete. Fumiko, Hirai, Kei e Kotake vogliono rivivere quella combinazione di tempo che ha sconvolto le loro vite, confidando nella leggenda ogni possibilità di rimedio. Il principio è chiaro, il tuffo nel passato non influenzerà il presente, oggi rimane cristallizzato nella sua dimensione protetta. Tutti i personaggi stringono a sè il patrimonio degli affetti.

Attratta dalla leggenda, Fumiko, una brillante giovane in carriera, apre per la prima volta la porta della caffetteria per ritrovare un amore in orbita nel perimetro del mondo, quanto rammarico per aver sottovalutato la menzogna dell’eterno, Fumiko adesso sa che l’ora del tardi è sempre puntuale. Hirai, una ragazza eternamente in conflitto con la sua famiglia si rende conto di aver condannato la sorella a una vita che non le apparteneva, quella stessa vita improvvisamente spezzata in un incidente stradale sarà per sempre fuori dal tempo. La morte non sempre è un destino, spesso è un ospite con biglietto d’invito.

Kotake è un’infermiera che, dopo il turno in ospedale, si prende cura del marito abbandonato dal fluido vitale della memoria. La sedia e il caffè caldo le riporteranno l’equilibrio mentale dell’uomo che ha sposato. Sarà fresco respiro prima delle fauci dei giorni grigi così impazienti di bussare alla porta. Seduta sulla sedia del futuro Key chiede di vedere la figlia mai nata, Key madre per sempre, stretta al suo grembo nemico di una nuova vita. Le ferite guariscono quando si decide di medicarle, l’indifferenza dello sguardo altrove alimenta l’emorragia di barriere decise a separare. Il per sempre richiede cure quotidiane praticate su pazienti in attesa di un abbraccio, non è insolito che i miracoli preferiscano atterrare su pelle fertile d’amore.

La temperatura del caffè è l’arbitro sceso in campo per far sì che le regole non siano mai infrante. Oltre quello spazio di tempo non si può andare. Un limite? Niente affatto. Quando ci sono margini da rispettare si riconosce il valore di cose e case. Il centro del presente si spande nelle abitudini quotidiane, chiamarle così è quanto mai pericoloso giacché il rito prepara l’agonia a ogni genere di rapporto. Il girotondo delle stagioni salva la terra con una rotazione d’ampio respiro, “qui ed ora” torna sempre con un vestito nuovo per dare lavoro al sarto del cambiamento. Quando lo specchio non ci rimanda l’immagine desiderata la magia del sogno accorre per calmare le acque agitate, benvenuti miti e leggende se distraggono da violenti angosce, vengano pure sedie vaganti nel tempo e caffè da bere in tutta fretta, inganno dei sensi alla stregua di farmaci per curare affanni perduranti nel tempo.

Quante promesse davanti a un caffè che, sebbene sia addolcito da una o più zollette di zucchero, all’improvviso il cucchiaino cede all’amarezza del sorso consumato in solitudine. Il gusto scappa dalla tazzina, salta giù dal tavolo superando argenti e porcellane pur di raggiungere il profumo intenso di un banchetto a più voci. In comunione o in guerra, però mai da soli nella staffetta di lunghi silenzi capovolti in confidenze liberatorie. Il peso delle parole dette è minore di quelle omesse, il fiume che non trova il mare diventa palude, casa per rospi in costante moltiplicazione.

Avrei potuto, avrei dovuto, lettere e vocali disperse sulle labbra avvezze a parole in ritardo, ti volti indietro e le trovi stremate sul tappeto liso del passato. Avvolgerlo non è dimenticare, ma ergerlo a totem del verbo di ciò che è stato. “Carpe diem” raccomanda il poeta latino Orazio, afferra il giorno come se non fosse tuo, ruba il segreto al ricco di anni, l’attimo appartiene al saggio che con coscienza ne ha cura. Chiediamo scusa a tutte le tazzine di caffè per averle private di un sorso gentile, una benedizione sulle labbra prodighe di parole distese per non lasciarsi affannare dal mestiere dei ricordi.

Amato o no, la lettura di questo romanzo invita ad allontanarsi dalla storia per coglierne il messaggio. Sotto gli alberi di ciliegio orientale c’è una caffetteria con una sedia per riscrivere il diario segreto del cliente. Il viaggio del gambero dura meno di poco, sul treno del tempo la valigia diffonde il profumo di un rimedio possibile finché il caffè è caldo, perché le vene pulsano solo se sono attraversate da vita accesa, solo se di vita sanno ancora parlare.