“Dove porta la neve” di Matteo Righetto

“Dove porta la neve” di Matteo Righetto

Le solitudini si curano da sole quando la ripetizione del giorno decide di cambiare colore al tramonto. Ormai stanche di guardarsi allo specchio che ripete una sola voce, le isole varcano i muri da loro stesse innalzati per sfuggire alla vertigine dell’ignoto.

Un romanzo assai vicino a una favola, potremmo definirla così la narrativa dello scrittore Matteo Righetto pubblicata dalla casa editirice Tea.

Dove porta la neve” è una scrittura amalgamata al mondo dei sogni tenuto al sicuro nel suo ambiente impaurito dalla prova.

Se nel titolo manca un punto interrogativo forse è volontà dello scrittore concedere allo sguardo l’arbitrio di scegliere tra il sogno e il ripetuto risveglio.

Del resto, Matteo Righetto ci ha abituato alla sua narrativa costantemente in volo verso il paradiso mancante sulla Terra. Lui usa le parole per colmare le lacune della natura umana spesso distratta da futili abbagli.
Padova, vigilia di Natale. Neve, tanta neve sigilla in una cornice l’esistenza degli ultimi assediati dal manto bianco. Se sarà coperta oppure muro di ghiaccio spetterà ai lettori il compito di riconoscere nei cristalli la doppia, ingannevole vita commista alla meraviglia dell’accoglienza.

Carlo, un uomo di quarantotto anni bambino per sempre, vive con una copia in più del cromosoma 21. Carlo orfano di padre, vive la sua infanzia ripetuta all’infinito ai piedi di un letto d’ospedale dove la madre sta combattendo la sua guerra contro la malattia con la forza di una montanara quale lei è, “e un montanaro non molla mai! È proprio nei momenti più duri che si forgia il suo destino“.



L’incontro di Carlo con Nicola, un uomo avanti negli anni, sconfitto dai pregiudizi della società, assume il ruolo del personaggio di un presepe vestito di bianco. Nel non colore riconosciamo la caducità del tempo che scivola più velocemente tra le dita dei deboli, mentre si concede un beato riposo nella natura permeata da vene d’acciaio.

Quando due solitudini si incontrano è già una folla gremita di parole in attesa di donarsi ad una voce mai affidata al caso, bensì scelta con cura da un privilegio celeste.

Nicola non ha altri che se stesso, una casa e quel poco denaro che gli consente di non andare a dormire affamato. Barcolla sul ciglio della povertà ma non si arrende, si traveste da Babbo Natale e va al centro commerciale a regalare sorrisi in cambio di qualche soldo. Proprio lì incontra Carlo che il sorriso lo porta sempre con sè quale segno distintivo di quella coppia di cromosoma in più che, anziché indebolire le abilità cognitive, aggiunge distillato di candore perlopiù assente negli adulti complicati a partire dalla culla.

La barba bianca di quel Babbo Natale sotto cui batte il cuore di un nonno dai capelli d’argento, vuole essere stella cometa per il sogno di Carlo. L’inizio di un viaggio al centro di una bufera di neve avvolge entrambi in una coltre ricamata con una corrispondenza empatica dei sensi. Sarà un lungo cammino in una geografia leggibile da due sentimenti affini all’ itinerario imbastito con l’unico bagaglio di un abbraccio.

“La gente dice sempre: “Un abbraccio, ti abbraccio”, ma poi nessuno si abbraccia mai per davvero… Io vorrei vivere abbracciato!”

La lettura di uno scenario siffatto può risultare drammatica se la purezza del bianco viene fraintesa dal freddo sterile della notte. Solo se applicate all’unisono, il panorama non avrà alcun problema di essere confuso nella nebbia il cui proposito è sempre stato quello di offuscare l’acquerello cristallino.

“La neve non è tutta uguale. C’era la nevera, come si chiamava la nevicata grande e copiosa, c’era la zijena, cioè la neve asciutta e farinosa, c’era la mola, che era la neve bagnata e pesante dell’autunno. E poi c’era la brija, che era la nevicata leggere, il jonfèdo, il nevischio con vento forte, la buria, la tipica neve burrascosa di aprile, rapida a venire e altrettanto rapida a sciogliersi, la balinà a pallini gelati, ed infine la nef à panejiei, la nevicata delle fiabe, quella a falde così larghe che assomigliano a piume d’oca”.

Per Carlo l’unica luce che rischiara le opacità molto più della mezzanotte più attesa dell’anno è l’estensione di sé, immobile in un letto d’ospedale. Nora, sua madre. Lei porta la neve conosciuta sui monti, lei chiederà alla sua eco ancora un abbraccio vestito di bianco perché così ha deciso il rito della stagione puntuale al dovere.
Nella pienezza della reciprocità di piccole emozioni, Carlo e Nicola magnificano una storia scritta per dare fiducia alle orme precarie nella magia della neve. È bastato allargare le braccia alla generazione fresca di nuove forze per far ritornare il bambino cresciuto nell’indigenza morale e materiale, quanto basta per ragionare su un incontro analfabeta del caso. Sta per calare il sipario sul bianco velluto apparso nei versi di ogni poeta, intanto la stella ha scelto per sè la luce prestata dal respiro morente di una madre.