Beatrice Venezi, direttore o direttrice d’orchestra: i limiti del linguaggio

Beatrice Venezi, direttore o direttrice d’orchestra: i limiti del linguaggio

SANREMO – Beatrice Venezi, che ha co-condotto la prima parte della quarta serata del Festival di Sanremo, a margine della premiazione delle Nuove Proposte ha dichiarato: “Sono direttore d’orchestra, non direttrice. Per me quello che conta in realtà è il talento e la preparazione con cui si svolge un lavoro. La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è direttore”.

Come prevedibile, le sue parole hanno aperto un dibattito molto acceso, tra chi è promotore dell’uso del genere femminile anche per mestieri per i quali si è usato molto spesso il maschile e chi, invece, aborra tale pratica sostenendo che il maschile sia valido in ogni caso, come una sorta di genere neutro. Che nella lingua italiana, però, non esiste più, pur derivando dal latino che invece lo annoverava tra i propri generi linguistici.

Ogni persona è libera di farsi chiamare come meglio gradisce, questo resta chiaro. Ma stride la precisazione fatta da Venezi: “La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è direttore”. Non è propriamente così, o meglio ha quel nome perché è un lavoro che è stato per lungo tempo solo ad appannaggio degli uomini. Le direttrici d’orchestra oggi sono ancora poche, ma esistono. Si stanno prendendo il loro spazio, come fa la stessa Venezi, in un mondo che è stato esclusivamente maschile per troppo tempo. Ed è proprio per la “tradizione” del ruolo che si è imposto direttore d’orchestra, in mancanza di figure femminili che potessero essere chiamate direttrici d’orchestra.

Lo spiega in poche e semplici parole (tratte da un’intervista a Vanity Fair) la sociolinguista Vera Gheno: “Molti nomi professionali sono tradizionalmente maschili perché in passato banalmente non esistevano donne che svolgevano quel lavoro. La prevalenza di ‘minatore’ su ‘minatrice’ non ha una spiegazione interna al sistema linguistico, bensì al fatto che le minatrici sono poche nella storia di questa professione”. E ancora: “Nella questione dei femminili professionali si uniscono una naturale resistenza al cambiamento e atteggiamenti culturali tradizionalisti, non necessariamente sempre maschilisti; tuttavia, alcuni parlano a questo proposito di patriarcato introiettato: siamo abituati a vedere la società attraverso una lente deformante”.

Una questione di abitudine, quindi. Non siamo abituati a usare il femminile di determinate professioni ancora praticate in larga parte da uomini e, di conseguenza, pensiamo che l’uso del termine professionale femminile sia un errore da evitare. Servirebbe dunque solo un po’ di pratica in più per superare l’ostacolo. Basti pensare anche che fino a qualche decennio fa (nemmeno troppi) le dottoresse in ospedale non venivano chiamate col titolo che spettava loro, ma “signorine”. Cosa che oggi ci guarderemmo bene dal fare.

A sintetizzare l’ostilità, più o meno consapevole ed esposta, nei confronti delle professioni considerate alte e prestigiose declinate al femminile, arriva un tweet del senatore Simone Pillon: “Bravissima Beatrice Venezi. Basta col politicamente corretto della Boldrini che cambia tutte le parole per non cambiare nulla. Bene le donne direttori d’orchestra. E chiamiamole direttori. Se lo sono meritato”. Se lo sono meritato. Una questione di merito. Sono donne che si sono impegnate così a fondo da poter essere assurte al rango di uomini, da poter entrare nell’olimpo maschile. È veramente questo il concetto distorto di parità dei sessi che si vuole portare avanti? Donne che sono meritevoli solo se si avvicinano agli standard che il mondo maschile ritiene che debbano avere?

Le donne, come qualunque essere umano, devono essere libere di essere ciò che vogliono, come vogliono, senza dover rispettare nessun modello preconfezionato che non le faccia sentire a loro agio o ne svilisca la figura in favore di un più rassicurante manto maschile con cui coprire i loro talenti e che non metta in discussione l’assoluto primato degli uomini. Devono essere libere di essere donne libere. E di poter usare il genere femminile del loro lavoro senza per questo temere che in qualche modo ne diminuisca la professionalità. Anzi. E ricordando che, come enunciato negli anni ’20 del secolo scorso dal filosofo viennese Ludwig Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.