ITALIA – Sposarsi al giorno d’oggi richiede molto impegno non soltanto dal punto di vista “sentimentale”, che è alquanto scontato, ma soprattutto per la gestione della vita quotidiana insieme a partire dalle spese alla cura della casa e della famiglia.
Con il matrimonio, infatti, marito e moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri, come previsto dagli artt.151, 160, 316, 29, 30 della Costituzione.
Il nuovo diritto di famiglia, entrato in vigore nel 1975, ha segnato, per quanto riguarda la coppia, il passaggio da un modello in cui il marito era formalmente il “capofamiglia”, ad un modello paritario, in cui i coniugi hanno “gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri“, secondo quanto previsto dagli artt.151, 160, 316, 29, 30 della Costituzione.
Tale parità è sottolineata anche dall’utilizzo del termine “coniuge” invece che “marito e moglie” dei codici precedenti ed è strettamente intrecciata al riconoscimento dell’apporto del lavoro domestico, svolto, di norma dalla donna, al “benessere” familiare.
“Dovere di contribuzione”
Ai microfoni di NewSicilia è intervenuto l’avvocato del Foro catanese Chiara Catania per approfondire la tematica e chiarire eventuali dubbi sulla scia che “prevenire è meglio che curare“.
“Il dovere di contribuzione rientra tra i diritti e doveri reciproci dei coniugi sanciti dall’art. 143 del codice civile, insieme all’obbligo reciproco di fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione“, precisa.
In particolare, il comma 3 dell’art. 143 c.c. stabilisce che “entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.
Si esplicita in tal modo che tale “benessere” deriva non solo del reddito prodotto col lavoro professionale esterno, ma anche del lavoro domestico e di cura.
Pertanto, si evince che l’adempimento del dovere di contribuire ai bisogni della famiglia può essere realizzato con modalità diverse, non necessariamente attraverso l’erogazione in concreto di una somma di denaro.
Esempi
Quindi, “con il matrimonio, i coniugi si impegnano a contribuire ai bisogni della famiglia ciascuno in proporzione alle proprie capacità economiche, ciò non vuol dire che chi non ha un lavoro non debba prestare il proprio apporto, bensì lo farà da un punto di vista materiale, per esempio prendendosi cura della casa e dei figli, o mettendo a disposizione beni personali come la casa coniugale o l’auto“.
A titolo esemplificativo, secondo quanto spiegato dall’avvocato, costituisce adempimento del dovere di contribuzione:
- la messa a disposizione della famiglia di una casa di cui si era già proprietari prima delle nozze affinché vi si possa vivere senza doverne acquistare un’altra;
- effettuare le spese di ristrutturazione sulla casa di proprietà dell’altro coniuge per poterla abitare congiuntamente;
- la partecipazione alle spese per l’acquisto dell’abitazione familiare da parte del coniuge in regime di separazione dei beni;
- fare la spesa e cucinare tutti i giorni, pulire la casa, badare ai figli.
Misura minima del contributo
Oltre al caso in cui uno dei due coniugi, per assenza di lavoro, si dedichi alla casa e ai figli, consideriamo anche l’ipotesi in cui entrambi i coniugi abbiano un reddito, ecco che in tali circostanze ci si chiede quale sia la misura minima del contributo che ciascuno è tenuto a fornire alla famiglia.
Questo la legge non lo dice. “Tutto dipende innanzitutto dal guadagno dei coniugi e, secondariamente, dagli accordi. Generalmente, il coniuge che ha lo stipendio più alto, si impegna in misura maggiore“, puntualizza.
Ancora: “La Cassazione, in merito, ha affermato che per determinare l’entità della contribuzione occorre considerare le condizioni finanziarie dei coniugi, tenendo conto anche degli apporti effettuati da ciascun di essi al momento delle nozze“.
La misura di tale contribuzione va infatti “parametrata non solo ai redditi o al patrimonio del marito o della moglie ma, altresì, in relazione alle ‘sostanze‘, alla capacità del coniuge di fornire un qualsivoglia apporto alla vita e alle necessità della famiglia, intesa come capacità di lavoro professionale o casalingo di ciascun coniuge“.
La legge entra “in punta di piedi”
Va chiarito che nei rapporti tra marito e moglie la legge entra in punta di piedi disciplinando solo gli aspetti generali e i casi che determinano la rottura dei rapporti e sono causa di responsabilità per il divorzio.
In un campo così delicato e sensibile, come quello dell’organizzazione della famiglia, il legislatore ha preferito lasciare i coniugi liberi di effettuare le proprie scelte.
“Ogni coppia può regolare i propri rapporti senza alcun tipo di imposizione, quindi anche il dovere di contribuzione. Tuttavia, questa autonomia non può mai spingersi sino a cancellare completamente tale obbligo, sarebbe pertanto nullo un accordo con cui una donna accetti di sposare un uomo a condizione che questi non la faccia mai lavorare e non le chieda di cucinare, lavare, stirare, badare alla casa e ai bambini“, sottolinea l’avvocato Chiara Catania.
Libertà dei coniugi
La libertà che la legge riconosce “consiste nel tipo di prestazione richiesta ai coniugi per il bene familiare (per esempio i coniugi possono concordare che la moglie o il marito svolga un’attività casalinga piuttosto che dedicarsi al lavoro) e nella misura di tale prestazione (per esempio si può stabilire che la moglie svolga un lavoro part-time e il pomeriggio si prenda cura della casa o che sia il marito a rinunciare alla carriera per dedicarsi ai figli)“.
“Per gli accordi di questo tipo, non è necessariamente richiesta la forma scritta, ben potendo essere presi verbalmente, prima o successivamente alle nozze, o desunti da comportamenti taciti, come per esempio, se il marito non contesta la scelta della moglie di non lavorare per dedicarsi alla casa, si ritiene che la scelta sia condivisa“, afferma.
C’è da dire, però, che il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia non attribuisce ai coniugi un potere sui beni di proprietà dell’altro (salvo che i due abbiano optato per la comunione legale).
Divisione delle spese
Il nostro ordinamento in merito alla divisione delle spese in famiglia non prevede che alcune spettino esclusivamente all’uomo e altre che invece siano riservate alla donna, bensì prevede il dovere di contribuzione sia per le coppie sposate in regime di separazione dei beni che per quelle che, invece, hanno optato per il regime della comunione dei beni.
È dunque in questo quadro che devono leggersi le modifiche introdotte al regime patrimoniale tra gli sposi e all’amministrazione dei beni comuni.
Comunione o separazione dei beni?
A tal proposito, quando una giovane coppia vuole sposarsi, tra le varie decisioni da prendere c’è quella relativa al regime patrimoniale.
C’è chi preferisce la comunione dei beni e chi, invece, opta per la separazione dei beni. Gli effetti sono differenti e sussistono pro e contro diversi. Ecco perché è bene conoscere a fondo la tematica, prima di effettuare il “grande passo”.
L’articolo 159 del codice civile stabilisce che “il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione… è costituito dalla comunione dei beni”.
Vale a dire che “a meno che non vi sia un’esplicita dichiarazione dei coniugi a favore della separazione, tutti i beni acquisiti durante il matrimonio, esclusi quelli ereditati, o ricevuti in donazione, sono automaticamente di proprietà di entrambi i coniugi“.
I Codici precedenti, sia quello Pisanelli del 1865, che quello Rocco del 1942, stabilivano invece come regime patrimoniale “normale” quello della separazione dei beni: in tale modello ciascuno dei due coniugi era proprietario dei beni personalmente acquistati.
Poiché, di norma, solo il marito svolgeva un’attività economica retribuita e aveva un reddito, era lui il proprietario dei beni acquistati durante il matrimonio. Questo non escludeva che, in non pochi casi, parte dei beni, e in particolare la casa coniugale, fosse intestata a entrambi i coniugi o alla solo moglie.
I regimi nel dettaglio
Vediamo nello specifico in cosa consistono tali regimi: “Con la comunione dei beni ciò che viene acquistato dopo il matrimonio è di proprietà di entrambi i partner, al 50%, diversamente, con la separazione dei beni, invece, i coniugi mantengono l’esclusiva proprietà dei beni, sia di quelli acquistati prima del matrimonio sia di quelli comprati successivamente“.
È comunque importante sottolineare che “la comunione dei beni non è retroattiva. Ne deriva che tutti i beni acquistati da uno dei coniugi prima del matrimonio rimane comunque di sua proprietà (anche se tutta la famiglia ha poi diritto a goderne l’utilizzo)“.
Comunione dei beni: inclusioni ed esclusioni
È chiaro che scegliere la comunione dei beni non significa prediligere un regime in cui tutto ciò che appartiene a uno diventa anche dell’altro: “Ricordo che vi sono beni che rimangono propri, quali i beni di cui si è proprietari sin da prima delle nozze, denaro, beni ereditati o donati (anche successivamente al matrimonio), beni utili per esercitare la propria professione, la pensione, ricavi derivanti dalla vendita di uno dei beni propri o ereditati, risarcimenti“.
Invece: “Ciò che diventa comune è il denaro che durante il matrimonio ciascun coniuge è riuscito a metter da parte, i cosiddetti risparmi, l’insieme dei beni mobili e immobili che, sempre durante il matrimonio, ciascuno ha acquistato (case, terreni, macchine), i debiti, le aziende gestite da entrambi in seguito al matrimonio (anche se costituite prima), nonché gli utili e gli incrementi che ne derivano“.
Necessario il consenso dell’altro
“La comunione dei beni prevede, altresì, che entrambi i coniugi siano legittimati ad amministrare i beni comuni in maniera autonoma. Se si tratta, però, di atti di straordinaria amministrazione e che riguardano beni mobili e immobili, scritti a pubblici registri, è necessario il consenso dell’altro, altrimenti l’atto sarà annullabile“, spiega l’avvocato.
Per evitare che il bene acquistato finisca in comunione occorre far partecipare all’atto il coniuge non intestatario che deve dichiarare di essere escluso dalla proprietà del bene, mentre il coniuge acquirente deve dichiarare che l’acquisto è strettamente personale.
Scioglimento della comunione
Resta ferma la possibilità di sciogliere la comunione dei beni o per volontà dei coniugi o per eventi esterni, come la liquidazione giudiziale di uno dei due coniugi.
Le principali cause di scioglimento sono:
- separazione dei coniugi o divorzio;
- annullamento o nullità del matrimonio;
- richiesta giudiziale di separazione dei beni;
- morte di uno dei coniugi;
- liquidazione giudiziale;
- la dichiarazione di assenza o morte presunta.
Con lo scioglimento si procede alla divisione dei beni comuni inderogabilmente in parti uguali.
Separazione dei beni
Diversamente, “optando per il regime della separazione dei beni ogni coniuge potrà mantenere l’esclusiva titolarità dei beni, sia antecedenti al matrimonio sia successivi. Infatti, ciò che si è acquistato separatamente non è considerato di comune proprietà“.
In conclusione, “solo il coniuge proprietario del bene ha diritto all’amministrazione e al godimento dello stesso, a meno che, tramite procura, il bene venga cointestato. Per cointestare un bene, è necessario specificarlo al momento dell’acquisto. Inoltre, bisogna indicare, anche, la quota di comproprietà da assegnare“.
Ancora: “La separazione dei beni prevede l’obbligo, per entrambi i coniugi, di contribuire alle spese, in maniera del tutto proporzionale, considerando sempre le proprie possibilità economiche e mettendo al primo posto il fabbisogno familiare“.
Occorre la comunicazione
“Ricordo che la decisione sulla comunione o la separazione dei beni va comunicata alla fine di tutte le procedure di matrimonio, davanti al sacerdote se le nozze sono in Chiesa o davanti l’ufficiale dello stato civile se ci si sposa in Comune, ma non è obbligatoria“, ribadisce.
Al termine della cerimonia, infatti, il sacerdote o l’ufficiale di stato civile annoteranno la decisione sull’atto di matrimonio e, nel caso in cui gli sposi non sappiano cosa scegliere, per legge si applicherà in automatico la comunione dei beni.
La legge, però, consente ai coniugi di cambiare idea e in caso di ripensamento si può passare dalla separazione alla comunione o viceversa anche in un momento successivo alle nozze, serve però stipulare un atto pubblico dinanzi al notaio.
I dati: pro separazione
Concretizzando tali nozioni, la scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni, come si evince da alcuni dati Istat, è un fenomeno in rapida crescita. L’incidenza dei matrimoni in regime di separazione dei beni supera la quota di quelli in regime di comunione dei beni.
Se analizziamo sia l’andamento temporale, sia il suo concreto dispiegarsi nelle diverse Regioni è possibile notare che “la scelta varia anche a seconda di alcune importanti caratteristiche degli sposi, quali la collocazione lavorativa e il titolo di studio“.
“Nel 1976, primo anno di applicazione della nuova norma sulla comunione dei beni, la quasi totalità delle coppie (99%) scelse la comunione dei beni ma, negli anni a seguire, da un lato una percentuale di coppie ha modificato, con atto notarile, il regime patrimoniale iniziale, passando alla separazione, dall’altro sono aumentate le coppie che, al momento del matrimonio, hanno optato per la separazione“, prosegue.
La “comunione” dal 2004 ad oggi è fatta solo dal 44% delle coppie, risultando così minoritaria.
Le motivazioni
Alla base della scelta vi sono anche le condizioni socio-occupazionali degli sposi: “Optano per la separazione il 68,1% delle coppie laureate, il 57,5% quelle diplomate, il 48,3% quelle in cui entrambi hanno la licenza media, il 33,4% quelle in cui entrambi hanno la licenza elementare; il 60% le coppie in cui la donna è occupata, il 49,2% quelle in cui è casalinga“.
A queste differenze si sovrappongono quelle collegate al contesto territoriale: decidono la separazione circa il 60% delle coppie delle Regioni centro-settentrionali, poco meno della metà di quelle meridionali e delle Isole.
I dati Istat evidenziano le differenze socio-territoriali e le caratteristiche sociali delle coppie, infatti, le percentuali più elevate di comunione si registrano nelle regioni meridionali, nelle coppie meno secolarizzate e in quelle in cui la donna è casalinga.
Maggiore semplicità nella gestione?
La ricerca ha potuto sondare anche le motivazioni sottostanti alla scelta della separazione. In quasi il 40% dei casi la scelta è dettata dalla maggiore semplicità nella gestione dei beni, o dall’obiettivo di “evitare problemi nella gestione di eventuali eredità“, o semplicemente dalla considerazione che sia più “giusto che ciascuno possa disporre liberamente delle proprie entrate“.
A tali motivazioni si aggiunge il ruolo svolto dalle famiglie di provenienza, nel senso che “è presumibile che le famiglie di origine non siano particolarmente favorevoli alla comunione dei beni e incoraggino quindi la separazione nei casi in cui abbiano supportato in modo prevalente, o ancor più esclusivo, il proprio figlio, o la propria figlia, nell’acquisto dell’abitazione coniugale, o nel caso in cui si prospettino comunque successive eredità“.
“Sono dunque numerose e ancora in crescita le famiglie, per lo più di ceto medio, che trasmettono immobili e capitali ai propri figli e che sono quindi interessate a tutelare, anche nel futuro, i propri eredi circa la disponibilità di tali beni“, aggiunge.
Il regime di separazione “è più frequente nei casi in cui l’abitazione sia di proprietà, ma intestata a uno solo dei partner, e nei casi in cui vi siano anche altre proprietà immobiliari intestate a uno solo dei partner. Viceversa, la comunione è molto più frequente non solo tra le coppie che non hanno beni, ma anche tra quelle che hanno la casa di proprietà comune, o che in comune possiedono altri immobili“.
Una scelta importante
Ciò evidenzia che quella del regime è una scelta molto importante da fare con coscienza e consapevolezza e gli sposi prima di decidere devono considerare una serie di fattori e probabili conseguenze.
Ci chiediamo quando convenga un regime rispetto all’altro, atteso che, oltre condividere o meno tutti i beni acquistati dopo il matrimonio, bisogna considerare anche i debiti contratti, il futuro dei figli e il rapporto con il coniuge.
Infatti, una delle considerazioni principali riguarda l’eventuale separazione. Comunione o divisione, infatti, entrano in gioco, principalmente, al momento di un’ipotetica rottura del nucleo familiare.
Vantaggi comunione dei beni
Premesso ciò, ecco quando conviene la comunione dei beni, rispetto alla divisione: “Quando uno dei due coniugi ha dei beni acquistati prima del matrimonio, non esiste un particolare squilibrio tra i patrimoni dei singoli coniugi“.
Invece occorre considerare la divisione dei beni “quando uno dei due coniugi ha, prima del matrimonio, acquistato la sua prima casa per mantenere l’immobile e le agevolazioni, la divisione dei beni è l’unico scenario possibile. L’altro coniuge, così come l’intero nucleo familiare, potrà acquistare un secondo immobile, senza perdere eventuali agevolazioni fiscali; uno dei due coniugi ha una ditta individuale o un’impresa commerciale. In caso di fallimento, infatti, eventuali beni (dell’altro coniuge) non saranno compromessi e attaccati dai creditori; uno dei due coniugi ha avuto dei figli da un precedente matrimonio“.
Senza dubbio “la separazione dei beni tutela maggiormente la parte forte della coppia, quindi lo svantaggio è che viene tutelato poco il più debole della coppia sul piano economico. Tuttavia, esistono donazioni, polizze assicurative e testamenti a favore del coniuge, a cui si può ricorrere“.
Vantaggi separazione dei beni
I vantaggi derivanti dalla separazione dei beni sono principalmente di tipo pratico: “Ciascun coniuge potrà conservare la titolarità esclusiva dei propri beni, il cui godimento è concesso anche all’altro coniuge, e resteranno separati anche i patrimoni personali“.
Di certo, il regime patrimoniale prescelto influisce su diversi aspetti della vita in comune:
- sulla partecipazione alla spese comuni, e cioè i criteri con cui ciascun partner ha obblighi di contribuzione reciproca nelle spese comuni o nell’attività lavorativa domestica ed extradomestica;
- le modalità di attribuzione della proprietà dei beni che vengono acquistati nel corso della convivenza;
- i criteri d’uso della casa utilizzata come residenza comune, sia nel caso di immobile di proprietà di uno solo dei due sia nel caso di affitto (e quindi di entrambi);
- il modo in cui vengono definiti i reciproci rapporti patrimoniali in caso di separazione o divorzio, così da evitare, al momento della cessazione della convivenza, eventuali discussioni o rivendicazioni che difficilmente potrebbero trovare un accordo.
In caso di divorzio?
Occorre valutare anche i pro e contro in caso di comunione dei beni o di separazione dei beni qualora si decidesse di divorziare.
Ebbene, “in assenza di figli non si pongono particolari problemi, infatti, il singolo coniuge sarà l’unico titolare dei beni acquistati sia prima che dopo le nozze, mentre ciò che si è costruito insieme sarà equamente diviso. Diversa e più complicata è l’ipotesi in cui vi è prole“.
Inoltre: “Quando ci si separa o si divorzia, oltre al patrimonio anche la casa è uno dei principali motivi di disputa. Verrà assegnata al genitore collocatario a cui vengono affidati i figli, anche se è stata scelta la separazione dei beni e l’immobile risulta di proprietà dell’altro“.
Comunione vs separazione
L’avvocato ha spiegato: “Si consiglia generalmente la comunione dei beni nel caso in cui il matrimonio vada a gonfie vele, non si prevedano situazioni di conflitto come separazioni o divorzi e si disponga comunque di beni acquistati prima del matrimonio. Chi non dovrebbe optare per la comunione dei beni sono le persone particolarmente facoltose, che potrebbero correre il rischio che il coniuge se ne approfitti“.
Dall’altro lato abbiamo la separazione dei beni, anch’essa dotata di pro e contro. “Il regime separato può sembrare a prima vista un atto poco amorevole e poco fiducioso nei confronti del partner, però ha diversi vantaggi, prima fra tutti quello di scongiurare ogni tipo di conflitto nel caso di rottura del matrimonio“, chiarisce.
La separazione dei beni conviene soprattutto quando:
- uno dei due coniugi ha usufruito degli sconti sulle imposte prima casa e vuole mantenere l’immobile;
- uno dei due ha un’impresa commerciale, in caso di fallimento o debiti, il coniuge e i suoi beni non vengono coinvolti;
- uno dei due ha figli da un altro matrimonio: se dovesse morire la separazione dei beni eviterebbe al coniuge rimasto in vita di litigare con i figli dell’altro per l’eredità.
Sicuramente non esiste una soluzione che vada bene a priori perché occorre valutare diversi aspetti del patrimonio personale dei coniugi.
Sì alla separazione: quando?
In merito ai vantaggi della separazione dei beni, possiamo dire che “è conveniente quando il patrimonio familiare può essere gestito in maniera più rapida e in autonomia, infatti, non c’è bisogno della doppia firma, le pratiche burocratiche sono quindi più snelle e veloci, eventuali creditori di una delle due parti non possono attaccare l’altra, in caso di separazione/divorzio non c’è bisogno di dividere i beni, quando la situazione patrimoniale è molto differente tra i coniugi, quando una situazione lavorativa dei coniuge porta a rischi professionali, quando vi è una resistenza familiare alla comunione“.
A livello strettamente “tecnico” non ci sono svantaggi significativi nella scelta di questo regime. Solo a livello “di forma”, la separazione dei beni potrebbe mostrare una scarsa fiducia nelle sorti del matrimonio.
Gestione delle spese e divorzio
Altro interrogativo da risolvere è il seguente: la gestione delle spese tra marito e moglie è causa frequente di divorzio?
L’avvocato Chiara Catania ha risposto: “Sicuramente la legge non fa i conti in tasca ai coniugi, su chi spende di più e chi di meno, ma laddove emergesse che uno dei due non contribuisce in alcun modo per la famiglia, o perché spende tutti i propri soldi per sé o non intende lavorare, né prendersi cura della casa, il giudice potrebbe attribuirgli la colpa della separazione. Ebbene, in tal caso si può chiedere la separazione e il successivo divorzio addebitandone la colpa al coniuge, che pertanto perderebbe il diritto a ottenere l’assegno di mantenimento“.
Fra l’altro, “vorrei sottolineare che la misura della contribuzione ai bisogni della famiglia è molto importante per stabilire l’eventuale assegno di divorzio. Infatti, le Sezioni Unite della Cassazione hanno precisato che, per calcolare il mantenimento dopo il divorzio, il giudice deve tenere in considerazione l’entità del sacrificio fatto da uno dei due coniugi per il bene comune e, quindi, il contributo da questo apportato alla ricchezza della famiglia“.
La gestione delle spese in concreto: conto corrente comune?
Ma in concreto come è meglio amministrare le spese domestiche, quelle per la gestione della casa e della famiglia? Spesso, tra l’altro, i futuri sposi si chiedono se sia necessario avere un conto corrente cointestato.
“Al fine della gestione delle spese, marito e moglie non devono necessariamente avere un conto corrente comune da destinare ai bisogni della famiglia“, puntualizza l’avvocato.
Infatti: “Ciascuno può attingere dal proprio conto senza per forza condividere i risparmi in un unico deposito bancario o postale. La legge, peraltro, non obbliga i coniugi a dover gestire le spese comuni tenendole distinte dalle spese personali, quindi non c’è obbligo di una contabilità separata“.
Dal punto di vista fiscale
Anche da un punto di vista fiscale, “l’Agenzia delle Entrate considera gli eventuali bonifici fatti dal conto del marito a quello della moglie, e viceversa, come esecuzione dei normali obblighi di contribuzione familiare e del dovere di solidarietà coniugale. Pertanto, anche in assenza di causali specifiche, non potranno scattare accertamenti fiscali“.
Eccezionalmente, il fisco potrebbe agire per l’accertamento sul conto del coniuge solo in caso di sospetti di intestazione fittizia, ossia quando dovesse risultare che il conto, per quanto sia intestato a uno dei due coniugi, è costituito dai proventi in nero.
Dichiarazione dei redditi
Un altro aspetto su cui soffermarsi è l’aspetto fiscale che riguarda la dichiarazione dei redditi. Vediamo nel dettaglio.
Nel caso di comunione dei beni, “il reddito che deriva da un bene acquisito è attribuito per metà a ciascuno dei due coniugi. Soltanto nel caso in cui vi sia un coniuge ‘fiscalmente a carico’ dell’altro, sarà questo a dover dichiarare tutto il reddito derivante dal bene oggetto di comunione“.
I redditi dei beni che formano oggetto della comunione legale sono imputati a ciascuno dei coniugi: “Per metà del loro ammontare netto, oppure per la diversa quota stabilita a seguito di stipula di apposita convenzione matrimoniale, c.d. comunione convenzionale (art. 162 c.c.)“.
Nel caso di separazione dei beni: “Ciascuno presenterà la propria dichiarazione a meno che non si decida di procedere con la presentazione del modello 730 congiunto. In questo caso, i coniugi possono presentare la dichiarazione 730 in forma congiunta, indicando nei relativi campi il proprio domicilio fiscale“.