ITALIA – Il problema dei rifiuti tecnologici, o “e-waste“, è una delle emergenze ambientali più sottovalutate del nostro tempo, e gli smartphone rappresentano una fetta importante di questo fenomeno.
Negli ultimi anni, i telefoni cellulari, sono diventati una parte imprescindibile della nostra vita quotidiana. Ogni giorno nel mondo vengono prodotti e venduti milioni di dispositivi, ma raramente ci chiediamo che fine facciano una volta che smettono di funzionare o vengono semplicemente sostituiti con modelli più nuovi.
Rifiuti tecnologici: la “vita breve” degli smartphone
Nonostante il loro costo spesso elevato, gli smartphone hanno una durata media sorprendentemente breve: secondo recenti studi, un dispositivo è utilizzato in media tra i 2 e i 4 anni prima di essere messo da parte.
I motivi sono molteplici: da un lato, la progettazione intenzionale del dispositivo per durare poco, dall’altro la rapida evoluzione tecnologica che rende “vecchi” anche modelli ancora perfettamente funzionanti.
Non vanno dimenticati i problemi legati alla batteria, che dopo pochi cicli di ricarica inizia a perdere efficienza, e la difficoltà di riparazione, dovuta spesso a costi troppo alti rispetto all’acquisto di un nuovo modello.
A ciò si aggiunge la pressione sociale: molte persone cambiano smartphone non perché rotto o non funzionante, ma per avere l’ultima versione disponibile.
Tutto questo genera una quantità enorme di dispositivi dismessi ogni anno: secondo il Global E-waste Monitor 2024, nel solo 2024 si stima che oltre 5,4 miliardi di smartphone siano stati accantonati a livello globale, alimentando così un flusso di rifiuti tecnologici difficili da gestire in modo sicuro e sostenibile.
Dove finiscono i nostri vecchi dispositivi?
Ma cosa succede a questi milioni di smartphone una volta essere inutilizzati? Solo una minima parte è avviata a un corretto processo di riciclo.
Secondo il Global E-waste Monitor 2024, solo il 17,4% dei rifiuti tecnologici è smaltito in modo sicuro e tracciato. Il resto, circa 50 milioni di tonnellate all’anno, intraprende un viaggio invisibile verso discariche abusive o mercati paralleli.
Molti dispositivi finiscono spediti illegalmente verso paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa e in Asia.
Qui, nelle periferie delle grandi città, si sono formati enormi agglomerati di rifiuti elettronici, veri e propri cimiteri digitali, dove intere comunità, inclusi bambini, smontano a mani nude smartphone e altri apparecchi per recuperare metalli preziosi come oro, rame, litio e palladio.
Questi processi artigianali avvengono senza alcuna protezione: spesso, per estrarre i materiali, si bruciano cavi e componenti in plastica, liberando nell’aria diossine, furani e altre sostanze altamente tossiche.
Il problema è aggravato dalla mancanza di normative locali efficaci e da controlli internazionali deboli. A livello globale, il traffico illecito di e-waste è un business che muove miliardi, alimentato dalla mancanza di consapevolezza dei consumatori e da legislazioni troppo fragili.
I danni ambientali e sanitari dei rifiuti tecnologici
Gli smartphone, pur essendo dispositivi di piccole dimensioni, racchiudono al loro interno un mix complesso di materiali, molti dei quali altamente inquinanti. Circuiti stampati, schermi al plasma, batterie al litio: ogni parte può diventare una minaccia per l’ambiente se smaltita impropriamente.
Una volta dispersi in natura, questi componenti rilasciano sostanze chimiche come piombo, mercurio, cadmio e cromo esavalente, che contaminano il suolo, le falde acquifere e gli animali.
Le popolazioni che vivono nei pressi delle discariche abusive sviluppano con frequenza allarmante malattie respiratorie croniche, problemi neurologici, tumori e malformazioni congenite.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa 18 milioni di bambini sono esposti ogni anno ai rischi legati al riciclo illegale di rifiuti elettronici.
L’impatto però non si limita alle aree di smaltimento: le particelle tossiche, una volta entrate nel ciclo dell’acqua e nell’aria, finiscono ovunque, arrivando persino agli oceani e alla catena alimentare.
Il mercato degli smartphone ricondizionati: una risposta concreta al problema?
Ma quindi come possiamo, nel nostro piccolo, migliorare e cercare di risolvere questa emergenza? Oltre al ricorrere alla fondamentale e corretta raccolta differenziata, una delle soluzioni più efficaci e immediate per ridurre la quantità di rifiuti tecnologici potrebbe essere rappresentata dal mercato degli smartphone ricondizionati.
Acquistare un dispositivo rigenerato significa dare una seconda vita a uno smartphone che, altrimenti, sarebbe finito tra i rifiuti, contribuendo non solo a ridurre l’impatto ambientale, ma anche a limitare il consumo di risorse preziose impiegate nella produzione di nuovi dispositivi, come il litio, il cobalto e l’oro.
Negli ultimi anni, il mercato del ricondizionato è cresciuto in modo significativo: secondo il rapporto IDC (International Data Corporation), nel 2023 sono circa 309 milioni le vendite di smartphone usati e ricondizionati, con un aumento del 9,5% rispetto all’anno precedente. Si stima che entro il 2027 questo numero possa superare i 431 milioni di unità.
La storia di Swappie
Un esempio concreto di azienda attiva in questo settore è Swappie, uno dei principali siti europei specializzati nella vendita di iPhone ricondizionati.
Fondata nel 2016, Swappie ha dichiarato di aver venduto oltre 1 milione di smartphone ricondizionati entro la fine del 2022, contribuendo a evitare l’emissione di circa 23.500 tonnellate di CO₂, secondo quanto riportato nel loro Rapporto di Impatto Ambientale.
L’azienda sottolinea come ogni iPhone ricondizionato acquistato generi un risparmio medio di 78 kg di CO₂ rispetto alla produzione di un dispositivo nuovo.
Oltre al beneficio ambientale, il mercato del ricondizionato ha anche una forte valenza sociale ed economica, poiché consente l’accesso a dispositivi di alta gamma a prezzi più contenuti, riducendo al contempo il bisogno di produrre nuovi smartphone.
A tutto ciò si aggiunge una maggiore sensibilizzazione dei consumatori, favorendo il “riutilizzo” rispetto all’acquisto compulsivo.