Il piccolo Enea e il diritto all’anonimato

Il piccolo Enea e il diritto all’anonimato

ITALIA –Ciao mi chiamo Enea. Sono nato in ospedale perché la mia mamma voleva essere sicura che era tutto ok e stare insieme il più possibile“. Queste sono state le parole firmate mamma che hanno accompagnato il piccolo Enea nella Culla per la vita del Policlinico di Milano. Il neonato lasciato dalla madre la mattina di Pasqua pesa 2,6 kg ed è in buona salute. Si tratta del terzo bambino che viene affidato alla Culla da quando è stata istituita nel 2007 all’esterno della Clinica Mangiagalli, al riparo dalle telecamere. Non si tratta di una “ruota degli esposti” ma di un’incubatrice hi-tech con temperatura di 37 gradi che avvisa il personale sanitario nel giro di quaranta secondi, quelli necessari affinché il genitore si possa allontanare. Questo sistema permette ai medici di accogliere il bimbo e aiutare la madre nella sua drammatica scelta, in un ambiente sicuro e protetto. I medici del Policlinico hanno subito dichiarato che di fronte a una situazione di grande difficoltà come quella affrontata della madre, qualora ci ripensasse, sarebbero pronti ad assisterla.

Lasciare un bambino in ospedale nelle mani di chi lo può e lo sa accudire non è abbandonare, è fare un atto d’amore, come ha detto il filosofo Umberto Galimberti a La7.

La storia di Enea che questa settimana ci accompagna sui social, in radio e sul giornale è un’occasione per capire perché le Culle della vita siano fondamentali per tutelare i bambini nati in difficoltà, che sennò rischierebbero di finire abbandonati in cassonetti o in vicoli come la cronaca, anche recente, può dimostrare.

La mamma biologica del piccolo Enea è finita al centro della gogna mediatica pur avendo percorso tutti i passi necessari per garantire il benessere del bambino anche nella scelta tragica di rinunciare a crescerlo. È un vero e proprio accanimento quello che l’opinione pubblica sta scaricando sulla donna che non potendo crescere il bimbo ha comunque deciso di portare in grembo per nove mesi e di far nascere, per non impedirgli la possibilità di venire al mondo.

Su Facebook in queste ore è partita una petizione per rintracciare la donna attraverso la grafia della lettera con cui ha salutato Enea, “per aiutarle” o per portare a termine una caccia alle streghe estrema che non pensa alla tutela del piccolo ma alla punizione di una “madre snaturata” andando contro i principi etici e le norme giuridiche chiamati in causa.

La possibilità di affidare il bambino a cure altrui, mantenendo l’anonimato, è da anni garantita, ma ancora guardata con disprezzo.

Nell’ordinamento giuridico italiano non esiste una norma che regolamenti un diritto generale di anonimato, costituisce un diritto solo nei casi espressamente previsti da norme speciali. Il diritto al nome è riconosciuto negli articoli 6 e seguenti del Codice Civile. L’articolo 6 in modo particolare afferma che “Ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome. Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati“. L’anonimato può sembrare contrapposto a diritti immateriali quali nome ed identità personale ma molte volte esso può costituire una forma di controllo della proiezione sociale della propria identità.

Si pongono in risalto alcuni aspetti presenti nella pronuncia della Corte Costituzionale del 25 novembre 2005, n. 425, in cui si affronta la rilevante questione del confine tra il diritto alla riservatezza e all’anonimato da parte della madre, e il diritto di conoscere le proprie origini biologiche da parte del figlio. I diritti menzionati sono tutelati a livello costituzionale all’articolo 2 della Costituzione poiché riconosciuti quali diritti fondanti della personalità dell’individuo e trovano attuazione nella Legge 184/1983 all’articolo 28. Quest’ultima norma attribuisce all’adottato che abbia raggiunto i 25 anni di età il potere di accedere ad informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici.

In origine, l’articolo 28 della legge sulle adozioni limitava fortemente il diritto a conoscere le proprie origini, stabilendo che l’accesso alle informazioni non era consentito nei confronti della madre che avesse dichiarato alla nascita di voler rimanere anonima. Pertanto, tale diritto prevaleva in modo invalicabile sul diritto a conoscere le proprie origini, pregiudicandone non poco l’esercizio: la normativa si dimostrava estremamente rigida in quanto non prevedeva alcuna possibilità per il giudice di interpellare la madre anonima su richiesta del figlio ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione. Proprio tale rigidità portò la CEDU nel caso Godelli contro Italia del 2012 a condannare l’Italia in ragione della assoluta irreversibilità del segreto. Al segreto, infatti, veniva data tutela incondizionata e nettamente prevalente rispetto al diritto dell’adottato.

In seguito la Corte Costituzionale (Sent. 278/2013) dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, perché “non prevede la possibilità per il giudice di interpellare la madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate riempiendo il vuoto normativo sul punto volto a determinare le modalità del procedimento di interpello e capace di assicurare la massima riservatezza della madre naturale, ammettendo, di fatto, che il giudice ha la possibilità di interpellare direttamente la madre biologica e verificare la sua attuale volontà nel momento in cui sussista un figlio che abbia esercitato il diritto a conoscere la sua vera origine.

Qualora, però, la madre confermi la volontà di rimanere anonima, il diritto del figlio a conoscere le proprie origini dovrà inevitabilmente soccombere. Secondo quanto affermato Corte di Cassazione con la sentenza 1946/2017, infatti, il giudice sarà chiamato ad apportare gli opportuni adattamenti, per garantire, in ogni momento, la piena tutela del diritto alla riservatezza della madre e il massimo rispetto della dignità della donna.

avvocato elena cassella rubrica giustizia