Diritto d’asilo, l’accoglienza dei migranti da un punto di vista giuridico

Diritto d’asilo, l’accoglienza dei migranti da un punto di vista giuridico

Il diritto di asilo è tra i diritti fondamentali dell’uomo ed è riconosciuto dall’articolo 10, terzo comma, della Costituzione allo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

La riserva di legge affermata dal citato terzo comma dell’articolo 10 per il diritto all’asilo dello straniero non è stata seguita, ad oggi, da una specifica legge attuativa.

Anche se i due termini sono spesso usati come sinonimi, l’istituto del diritto di asilo non coincide con quello del riconoscimento dello status di rifugiato. Per quest’ultimo non è sufficiente, per ottenere accoglienza in altro Paese, che nel Paese di origine siano generalmente represse le libertà fondamentali, ma occorre che il singolo richiedente abbia subito specifici atti di persecuzione. Il riconoscimento dello status di rifugiato è entrato nel nostro ordinamento con l’adesione alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 ed è regolato essenzialmente da fonti di rango UE.

Il rifugiato è dunque un cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese.

La Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990 è intervenuta sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità europea. A dare impulso ad una maggiore articolazione della disciplina normativa interna è stata l’incidenza delle disposizioni comunitarie.

L’asilo, infatti, nelle sue varie articolazioni, figura tra le materie di competenza dell’Unione europea, la quale vi persegue una “politica comune”, mediante un “sistema europeo comune di asilo” (articolo 78 del TFUE).

La normativa europea ha introdotto l’istituto della protezione internazionale che comprende due distinte categorie giuridiche:

  • il riconoscimento dello status di rifugiato, disciplinato come dalla Convenzione di Ginevra, è accordato a chi sia esposto nel proprio Paese ad atti di persecuzione individuale, configuranti una violazione grave dei suoi diritti fondamentali.
  • la protezione sussidiaria, di cui possono beneficiare i cittadini stranieri privi dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ossia che non sono in grado di dimostrare di essere oggetto di specifici atti di persecuzione, ma che, tuttavia, se ritornassero nel Paese di origine, correrebbero il rischio effettivo di subire un grave danno e che non possono o (proprio a cagione di tale rischio) non vogliono avvalersi della protezione del Paese di origine.

In relazione alla particolare condizione, dunque, può essere riconosciuto al cittadino straniero che ne faccia richiesta lo status di rifugiato o può essere accordata la misura di tutela di protezione sussidiaria. La differente tutela attiene ad una serie di parametri oggettivi e soggettivi, che si riferiscono alla storia personale dei richiedenti, alle ragioni delle richieste e al paese di provenienza.

Il Paese che valuterà la domanda di protezione internazionale per lo straniero è stabilito dal Regolamento Dublino, che contiene una serie di regole per stabilire quale, tra i Paesi europei, è competente ad esaminare la domanda; il fatto di avere presentato domanda in un determinato Paese europeo, infatti, non garantisce che sarà proprio quel Paese a valutare la domanda stessa.

Il Regolamento di Dublino prevede vari motivi per cui un Paese può essere competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale: la presenza di un familiare in un Paese che applica il Regolamento; il fatto di possedere o di aver posseduto un visto o un permesso di soggiorno rilasciato da uno dei Paesi che applicano il Regolamento; il fatto di essere entrato, di aver attraversato legalmente o illegalmente uno di questi Paesi.

Spesso viene applicata quest’ultima regola: il Paese competente a valutare la domanda di protezione internazionale è il primo Paese europeo in cui si è entrato (ad esempio: se l’Italia è il primo Paese europeo in cui si è entrato, sarà l’Italia a valutare la richiesta di protezione internazionale).

Quale è la procedura per presentare la domanda di protezione internazionale?

  1. IDENTIFICAZIONE: dopo aver espresso l’ intenzione di chiedere protezione, la Polizia procede all’identificazione; registra i dati anagrafici e scatta alcune fotografie. Se si ha un’età pari o superiore a 14 anni, le Autorità faranno anche una rilevazione delle impronte digitali che saranno trasmesse ad una banca dati europea, chiamata Eurodac.
    Al termine di detta procedura, se non fosse stato ancora possibile accertare l’identità e cittadinanza dello straniero, è possibile essere trasferiti in un Centro di Permanenza per i Rimpatri, ove ci si potrà trattenere per un periodo massimo di 6 mesi.
  2. FORMALIZZAZIONE DELLA DOMANDA: consiste nella compilazione di un modulo chiamato Modello C3. La Polizia porrà alcune domande sulla identità e condizione personale, sulla famiglia, sul viaggio affrontato nonché, un breve racconto sui motivi per cui si è lasciato il proprio Paese e il perché non si può farvi ritorno. Se lo straniero non parla italiano avrà diritto ad essere assistito da un interprete.
    Il modello C3 sarà firmato dallo straniero, dal funzionario di Polizia e dall’interprete che lo ha assistito e nel caso il rifugiato abbia meno di 18 anni, dal suo tutore o dal responsabile del centro in cui è stato accolto. Si riceverà quindi una copia del modello firmato e dei documenti depositati.

In tale contesto, si è parlato in Italia delle funzioni svolte dalle c.d. ONG definite come Organizzazioni Non Governative private, senza scopi di lucro e – come la definizione stessa dice – indipendenti dagli Stati e dai Governi, che ottengono la parte più significativa dei propri introiti da fonti private, per lo più donazioni.

Le ONG perseguono diversi obiettivi di utilità sociale, cause politiche o di cooperazione allo sviluppo. Gli ambiti di intervento sono vari: tutela dell’ambiente e del territorio, protezione delle minoranze, difesa dei diritti umani, ambiti di sviluppo e protezione specifici per alcune categorie di persone.

Essendo associazioni transnazionali private, che con un apparato organico stabile perseguono fini altruistici in maniera pacifica, anche la tutela delle persone migranti ed il salvataggio in mare rientrano tra i loro vari possibili scopi statutari in quanto attività funzionali alla protezione dei diritti umani ed in particolare del diritto alla vita e ad essere salvati se in pericolo di morte. Lo Stato dunque non può vietare a dette associazioni di effettuare un salvataggio di migranti in mare; infatti nei vari trattati internazionali e norme nazionali, è previsto l’obbligo di salvare le vite in mare come adempimento di un dovere e come valore da sempre riconosciuto nel diritto del mare di tutti gli Stati.

Sono poi regolamentate da un particolare trattato internazionale, il SAR (Search And Rescue) le modalità di messa in salvo e disimbarco dei naufraghi una volta operato il salvataggio e individuato il cosiddetto safety place o porto sicuro. La competenza a giudicare le eventuali violazioni del comandante in acque nazionali di uno Stato diverso da quello di bandiera sono regolate dalle norme sulla giurisdizione di diritto internazionale.

Il comandante che operi un salvataggio è tenuto giuridicamente a rispettare le norme del trattato SAR e a condurre i migranti al porto sicuro più vicino. Quando questo porto sicuro, ad esempio, è l’Italia, le navi ed il comandante è lì che sono tenuti a operare lo sbarco nei tempi più rapidi possibile. Giuridicamente gli obblighi del nostro Governo, qualora per le norme di legge sia identificato come safety place, potrebbero essere superati solo a seguito di una disponibilità volontaria di altri porti di altri Stati.

Ma se non c’è disponibilità volontaria di altri, il Comandante compierebbe un atto illegittimo andando in altro porto di sua iniziativa, violando così le norme internazionali, mentre agirebbe nel compimento di un dovere recandosi in Italia pur non rispettando divieti imposti dalle autorità italiane; ovviamente in questo ultimo caso si possono aprire dei contenziosi rispetto ai quali spetta alla magistratura operare il giudizio.

Quando poi le condizioni di salute dei “salvati” sono difficili o in aggravamento nell’attesa o nel ritardo, una eventuale inottemperanza ai divieti imposti integrerebbe un vero e proprio stato di necessità perché, se il comandante non operasse al più presto lo sbarco, potrebbe essere sottoposto a procedimento penale per non aver messo in sicurezza i naufraghi secondo legge internazionale.

Oggi molto spesso in Italia si fa strada la c.d. “politica dei porti chiusi”, quale soluzione per fermare i trafficanti di esseri umani. Ebbene, a parere di chi scrive, Occorrerebbe affrontare la questione in maniera ampia, strutturale, anziché in modo emergenziale e privo di una visione d’insieme e di prospettiva. Solo favorendo canali legali di migrazione per fare dell’Europa un ambiente inclusivo in grado di facilitare l’integrazione dei migranti nella società, riconoscendo la realtà dell’interdipendenza tra i popoli, si porrà un freno al traffico illegale di esseri umani.

Fondamentale è poi la revisione progressista del regolamento di Dublino superando la regola del primo approdo per la competenza delle domande asilo e con la previsione di un’equa e solidale ripartizione nella redistribuzione dei migranti, prevedendo sanzioni efficaci per gli Stati che non ottemperano a loro obblighi.