CATANIA – Si chiama “Vite in affitto” ed è un progetto nato quasi nell’ombra: mentre durante il primo lockdown – ormai un anno fa – i locali chiudevano le porte e le persone si barricavano i casa, a dei ragazzi del Liceo Classico Spedalieri di Catania è stato negato di portare avanti il Musical che stavano provando da diversi mesi. La colpa, ovviamente, era solo del Coronavirus, che costringendo alla chiusura delle scuole ha fatto in modo che moltissimi giovani rinunciassero alle attività extracurriculari che amavano.
Tristi ma non sconfitti, i ragazzi hanno allora deciso di voler comunque dare vita alla storia che non aveva visto il suo palco, creando tre episodi “prequel” allo show originario (che ancora sperano di poter portare avanti fino alla fine e che già pare sia ripartito): inizia tutto da Edoardo e Giorgio, loro vogliono occuparsi delle riprese, si aggiungono poi Marco e Ginevra, uno regista e punto di riferimento del progetto scolastico, lei ex allieva e aiuto-regia degli ultimi spettacoli. A loro si uniscono poi i ragazzi della scuola che stavano già partecipando al progetto iniziale, ancora altri perché interessati, poi ex allievi e amici: nasce “Vite in affitto”, chi si cimenta nella sua sceneggiatura, chi nei costumi, chi porta i propri attrezzi e chi recita, la macchina si mette in funzione a giugno e le restrizioni estive “leggere” permettono ai ragazzi di concludere tutte le riprese in piena sicurezza.
Lì l’alternarsi di zone rosse e arancioni rallenta il tutto e costringe i ragazzi a montare le scene da remoto, attraverso videoconferenze e chiamate al cellulare, ma finalmente negli ultimi giorni Vite in affitto è stato “svelato” al pubblico, che lo ha apprezzato e amato, riconoscendo l’immensa passione che i giovani hanno messo in ogni singolo dettaglio.
Dal palco al web, Catania diventa New York
Tutti “teatranti”, i ragazzi si sono ritrovati davanti a un enorme ostacolo: la videocamera. Di fronte alla videocamera non c’è pubblico, non esistono i debutti o le prove generali, recitare su un palco è nettamente diverso dalla recitazione di stampo cinematografico e questo i ragazzi lo sanno bene.
“Le prove esistono anche al cinema, ma la differenza di qualità è notevole tra i due tipi di recitazione. Per me è stata la prima volta e trovarmi a dover stare attento anche solo agli sguardi, alle micro espressioni, a tutto quel che viene amplificato nei primi piani all’inizio è un po’ strano. Per me però è stato bello perché forse per la prima volta mi sono seriamente messo a cercare un modo di recitare in maniera naturale, più spontanea di come io faccio solitamente a teatro. Le soddisfazioni ci sono comunque, molte scene le abbiamo anche ripetute proprio perché si può sempre dare il meglio“, a parlare è Gianpietro Patania, il protagonista del primo episodio (visibile cliccando qui) intitolato “Secondo Natura”, che narra la storia di Angel e del percorso che lo ha portato a conoscere sé stesso e a trovare le risposte a tutti quei dubbi che gli riempivano la mente. Angel si sente diverso, fin da piccolo preferisce giocare con le bambole piuttosto che con i classici giochi da “maschietto”, inizia a truccarsi come la madre e ad aprirsi con la psicologa e la sua amica Hannah, specialmente dopo essersi innamorato del suo migliore amico.
“La scena più divertente che ho girato è quella che mi vede cantare ‘Material Girl’ insieme ad Hannah, anche se poi cade nel drammatico. La più difficile invece è quella in cui non parlo, ma ascolto in silenzio mia madre. Durante quel discorso ho dovuto mantenere il mio personaggio nonostante non parlassi, la telecamera era puntata su di me e il mio compito era far capire cosa provavo solo con il mio sguardo“, continua.
A destra e sinistra di Angel ci sono i suoi due amici, Hannah e Nick. Spiega la natura del suo personaggio anche Alessandra Sicali, l’amica di Angel: “Lei vuole aiutarlo, specialmente si cura della reazione che Angel ha avuto dopo il rifiuto di Nick e di risolvere il suo disagio“.
“Molte cose non sono state sviluppate durante la stesura della sceneggiatura perché la storia aveva un tempo limitato, stiamo parlando ovviamente di un episodio di 23 minuti, non potevamo di certo fare un film”, aggiunge il regista dell’episodio Marco Longo.
L’importante, infatti, è sempre ricordare che qui si parla di una web serie, di tre differenti storie e non di uno spettacolo lungo due ore. Fondamentali in questi casi sono le mani di chi “taglia e cuce” le clip video, fino a ottenere il risultato che adesso è visibile sui loro canali social. A occuparsi del suono è stato Salvatore Azzia: “Ogni scena è diversa, ogni take ha un fine diverso, è stato bello poter scegliere quale sarà quella finale. La colonna sonora è un’aggiunta che dà completezza alle voci degli attori, è un elemento che aggiunge emozioni che la sola voce non coglie”. Al montaggio Giorgio Lavenia, un altro figlio del palco – e attore all’interno della serie – ed Edoardo Barbagallo, impegnati anche nelle riprese.
Un altro compito arduo per i ragazzi è stato trasformare gli attori attraverso i costumi (di cui si sono occupate Alessandra Sicali e Clarissa Raimondo), ma soprattutto la loro amata Catania, facendola diventare il più simile possibile a una New York degli anni ’80.
“Qualsiasi abito tu dai al personaggio deve essere calato dentro il contesto urbano. Ovviamente Catania è una Catania del 2021 e noi dovevamo cercare armonia tra i costumi e il contesto, ma anche con i volti dei ragazzi (alcuni dovevano sembrare più piccoli e altri più grandi). Abbiamo cercato ispirazione dall’abbigliamento degli anni ’80 e ’90 e poi Clarissa ha disegnato i bozzetti degli outfit”, spiega Alessandra.
“L’abito fa il monaco, eccome. In teatro e dietro un obiettivo bisogna studiare un personaggio anche attraverso i suoi abiti. Il lavoro è stato quello di cercare ispirazione, disegnare il bozzetto, reperire i vestiti, unirli al contesto in cui andavano messi. La nostra fortuna è che ultimamente vanno di moda gli anni ’80 quindi molti abiti li possedevamo già, anche se non accuratissimi”, continua Clarissa.
Aggiunge Marco Longo: “Devo dire inoltre che Catania ne è uscita molto bene, abbiamo fatto una scelta ‘urban’ e ne esce fuori una Catania urbana bellissima che non è la nostra Catania monumentale, è una Catania dei graffiti, del cemento, dei cassonetti, una scelta universale e coerente con l’ambientazione originaria”.
Uno “spettacolo”, ma social
Webmaster del progetto è stato Aurelio Mandraffino, che ne spiega i punti forti: “Vite in affitto è un progetto che funziona nel contesto social perché nasce per starvi dentro. In questo periodo storico i teatri sono chiusi, non ci si può vedere o toccare, e questo lavoro nasce grazie alla volontà e alla voglia di vivere la vita reale e di trovare il proprio spazio per vivere di nuovo, respirare di nuovo. Questi episodi sul web e funzionano perché sono nati sul web. Molti progetti di altre associazioni nascevano per debuttare in teatro e a causa del Coronavirus gli autori si sono dovuti reinventare, ma l’errore in questo caso è non modificare i propri progetti. Noi abbiamo cercato di dimostrare che si può ancora continuare a vivere se ci sono voglia e desiderio di farlo”.
Gli episodi sul web, infatti, non avrebbero avuto la stessa riuscita senza gli strumenti che i ragazzi possedevano e la loro capacità di farsi conoscere in giro per i social. Tutto questo, però, è nato per istinto, senza pretese, senza presunzione, in maniera del tutto amatoriale.
“Io non penso ci sia l’effetto amatoriale nel risultato finale, ma è una cosa che non ho mai temuto. Anche quando dovesse esserci, poi, non mi importa davvero. Io credo che il teatro amatoriale se ben fatto vale moltissimo, molti grandi attori hanno iniziato così. Il bello dei ragazzi poi è che sono spontanei, quindi non potranno mai risultare falsi. Finché saranno veri, saranno all’altezza di qualsiasi professionista”, risponde Marco Longo.
Continua Ginevra Ciuni, regista di due dei tre episodi: “In tal caso non sarebbe il contenuto a risultare amatoriale perché i ragazzi hanno fatto propria ogni parola del testo. L’inesperienza c’è, ma non si parla di amatoriale ‘venuto male’. Bisogna ricordare che non avevamo tanti mezzi tecnici, è stato un progetto spontaneo, molte cose le abbiamo imparate sul momento, come ad esempio l’uso del microfono. Vite in affitto è anche questo, è istintivo, è stato fatto senza pensarci troppo. Sappiamo che esistono errori tecnici, ma non ci pentiamo di niente”.
Cos’è una vita “in affitto”?
“Anche se in affitto, ne siamo sempre responsabili“, questa è la frase che compare un po’ ovunque quando si parla di Vite in affitto, che sia sui social, sul sito ufficiale o nei titoli di coda di un episodio. Ma cosa vuol dire?
“La vita non è nostra per sempre, ne siamo responsabili e come una casa bisogna abbellirla, prendersene cura, renderla accogliente“, spiega Marco Longo.
Questa vita è una vera e propria casa dentro cui si vive per poi (come spesso succede sotto affitto) lasciarla. Lasciando il nido, qualcun altro vi prenderà posto all’interno e la speranza – come spiegato da Aurelio Mandraffino – è che ci trovi qualcosa di nostro. Il trucco è lasciare un’impronta anche se piccola, anche se debole, anche se il periodo dell’affitto è solo un periodo di passaggio.
Una che ha voluto lasciare un segno, all’interno della sceneggiatura del progetto e riconosciuta nel terzo episodio (Magenta, verde, ocra, blu – visibile cliccando qui) è certamente stata Maureen, interpretata da Clarissa Raimondo: “Maureen è l’affittuaria che ti sta scomoda. Io la vedo un po’ come l’attivista vera, quella col megafono in mano che durante una manifestazione cammina davanti a tutti e parla anche se nessuno la ascolta. Lei è quella parte dei giovani che non sta bene, quella che alla società non piace guardare, è rumorosa, è una corrente che non puoi fermare”.
Il personaggio di Maureen debutta fianca a fianco con quello di Mark, un ragazzo con la passione per l’arte che con non poche difficoltà ha trovato la propria strada: “Mark dipende costantemente da qualcuno. All’inizio dal nonno e dalla sua passione per il cinema, dopo dall’idea che la madre gli ha impiantato in testa dicendogli che l’unica forma di arte ‘vera’ è la pittura, poi dipenderà da Maureen. Non ci ha mai creduto fino in fondo, ha sempre avuto bisogno di qualcuno che lo aiutasse a credere, non ha mai creduto in sé stesso, né nel suo sogno, né nelle sue abilità. Fino alla fine ha avuto bisogno di qualcuno che lo aiutasse a capire cosa voleva fare nella sua vita, finché poi non ha preso in mano il suo destino”, racconta l’attore del personaggio in questione, Felice Scuderi.
Di sogni e di speranze parla anche il secondo episodio (Ogni primo giorno del mese – visibile cliccando qui) che dà spazio a Giorgio Lavenia e Irene Mirone, rispettivamente Benny e Mimì: “Per me Benny è un personaggio accecato dai suoi sogni e dalle sue ambizioni. Talmente accecato da questo desiderio di fama e ricchezza da non accorgersi di quello che aveva tra le mani, compresa Mimì. Finisce tutto, allora. Nessuno lo aiuta, nessuno si fida di lui, ma soprattutto non si redime mai”.
Continua la giovane attrice: “Mimì è un personaggio complicato, lei porta con sé il grande sogno del ballo, ha speranze e sogni. Arriva a New York e scopre che non è tutto così semplice e si scopre molto ingenua. Spererà fino all’ultimo che qualcosa cambi, ma alla fine si accontenta di poter pagare l’affitto. Un unico periodo di gioia è quello che vive con Benny, ma non finisce bene. Credo che sia stato molto complesso entrare nella mente di questo personaggio”.
Gli episodi dietro la lente
Dati i sogni, le speranze, la voglia di fare dei ragazzi nella vita reale come sul set di Vite in affitto, è stato chiesto loro che colore associare all’intero progetto e cosa questo rappresenti per loro. Come una lente che filtra la realtà e la unisce alla finzione, la domanda serve a riconoscere quale sia la sua vera natura.
Di seguito le risposte degli attori: