Enrico IV, al Verga di Catania pubblico commosso e plaudente

CATANIA – Un lungo, lunghissimo applauso accompagna la chiusura del sipario. Le luci di sala sveleranno, dopo parecchi minuti, un pubblico ancora commosso e plaudente.

Eppure l’ultima scena del terzo atto dell’Enrico IV, andato in scena al teatro Verga di Catania fino a ieri, è di una leggerezza disarmante. Un pagliaccio che cavalca un cavallino di una giostra mentre con passo solenne un uomo si avvicina e lo incorona. “E ora sì … per forza … per sempre”: il continuo rimbalzo tra realtà e finzione, follia e verità si è definitivamente arrestato. Il filo sottile su cui si reggeva un teatrino di carta possibile per tutti, si è spezzato. E quando si spezza, non c’è altra possibilità che rifugiarsi nella follia. Per sempre.

Enrico IV, scritto nel 1921 e andato in scena nel febbraio 1922 con un attore del calibro di Ruggero Ruggeri, è decisamente il testo in cui la parabola della follia di Luigi Pirandello viene declinata nella sua forma più compiuta. Non a caso, assieme ai Sei Personaggi, è considerato il capolavoro teatrale dello scrittore.

Il protagonista, mai nominato, dopo una rovinosa caduta da cavallo durante una festa in costume avvenuta venti anni prima, rimane intrappolato in quella maschera che, per burla, impersonava: Enrico IV, appunto. Vive nella sua convinzione per dodici anni, accudito e assecondato da chiunque, non esitando a travestirsi per entrare nella corte e nella storia, voglia avvicinarlo.

Due grandi dipinti, raffiguranti lo stesso Enrico IV e Matilde di Canossa, campeggiano nella sala, fissando per sempre la data nella quale tutto si arrestò. Ma un giorno, per caso, la verità sopita nella sua mente si risveglia, la realtà riappare e il protagonista prende coscienza della sua follia. E “decide di restare pazzo”, continuando quel gioco, del quale ormai tutti conoscono le regole. Fino a che, molto tempo dopo, riappaiono i protagonisti di 20 anni prima. Lei, la bella, marchesa Matilde Spina, che all’epoca rappresentava Matilde di Canossa, il barone Tito Belcredi che innamorato della marchesa aveva causato la caduta da cavallo, la figlia di questi, Frida, identica alla madre di 20 anni fa e il dottor Dionisio Genoni, curioso dello strano caso di follia. Sono loro i primi personaggi che approdano sulla scena. Dalla vita reale. Con una automobile.

Sono deliziosamente finti, leziosi, gesticolano e si animano, come se volessero dare la migliore rappresentazione di sé.

La marchesa, magistralmente interpretata da Melania Giglio, sinuosa e consapevole del suo fascino, si atteggia a diva anni ‘20. Il Belcredi di Giorgio Lanza è l’amante che non può sentirsi offeso, perché superiore e annoiato come tutti gli intellettuali, usa le mani come un direttore d’orchestra. Antonio Zanoletti è uno psichiatra, che sinceramente preoccupato, taglia e cuce anche gli abiti della sua terapia d’urto.

È un teatrino ben curato, al quale prendono parte anche le belle scenografie di Margherita Palli, che muovendosi su più altezze, permettono agli attori, sapientemente illuminati dalle luci caravaggesche di Gigi Saccomandi, di diventare essi stessi affreschi fra i maestosi dipinti del salone.



Finalmente, nel secondo atto, segnato solo da una momentanea chiusura sipario, entra lui.

Indiscusso mattatore. Istrione per vocazione e scelta. Il “Pazzo” universalmente riconosciuto. E tutto sembra ritornare alla autenticità. Lo specchio deformante si riassetta e si riallinea . La realtà lentamente appare messa a fuoco. Enrico IV, a parte qualche momento voluto per compiacere e non deludere gli intervenuti a corte, appare il meno attore di tutti. Malinconico, umano, vero.

Grandioso Franco Branciaroli, che ha curato anche l’ottima regia di questo suo primo Pirandello, si fa vero interprete del testo. Ricco di intense sfumature, ora tragico, ora comico, restituisce la grandezza delle parole pirandelliane, senza concedere momenti di distrazione allo spettatore che rimane incantato, rapito e a tratti pure chiamato in causa da uno sguardo obliquo e beffardo che varca la quarta parete. Come avviene nella poetica scena in cui, Enrico, finalmente disfattosi della sua maschera, si confida ai quattro giovani finti consiglieri sotto un raggio di luna, evocato come unica certezza, unica realtà immutevole fra i secoli.

Ma forse l’unica vera follia “è confidarsi con qualcuno”, ci rivela il siciliano Pirandello.

Ed è l’inizio della fine. La tragedia deve compiersi. Enrico si vendica e pugnala l’antico rivale, che inconsapevolmente l’aveva riarmato, costringendolo a tornare indietro di 20 anni e riattivando così un processo che in quel punto si era arrestato.

Così, mentre gli altri si allontano urlando in contemporanea due verità opposte “È pazzo!” e “Non è pazzo!”, del terribile e temibile Enrico IV, spogliato di quell’unica identità che aveva scelto, rimane solo un pagliaccio che cavalca un cavallino a dondolo, finché la pietosa corona della follia non ritornerà a farlo re.

Gisella Calì