Viviamo in un’epoca in cui la l’ansia e la pressione si insinuano presto, silenziosamente, nell’età giovanile. Ogni traguardo che non si raggiunge, ogni confronto con chi sembra “più avanti”, più bello, più affermato, diventa una ferita invisibile ma profonda.
Un’ansia sottile, che cresce sui social e nella quotidianità, che si nutre di paragoni continui e aspettative irrealistiche. Il successo non è più una meta personale, ma un obbligo collettivo: la felicità, una vetrina da esibire.
In questa corsa silenziosa, molti giovani si sentono in ritardo, fuori posto, inadeguati. E mentre cercano disperatamente un equilibrio tra ciò che sono e ciò che dovrebbero essere, spesso si ritrovano soli. È in questo vuoto che dovrebbe intervenire la famiglia, e in particolare i genitori.
Ansia giovanile: L’intervista alla psicologa Valentina La Rosa
Per trattare queste importanti tematiche, è intervenuta ai microfoni di NewSicilia la Dott.ssa Valentina La Rosa: psicologa, psicoterapeuta, assegnista di ricerca e docente a contratto di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Catania.
Sempre più ragazzi tendono a confrontarsi con i loro coetanei, paragonando la loro situazione universitaria e sociale con quelle di altri compagni o amici. Da dove nasce questa esigenza di mettersi in “competizione” con gli altri? E per quale motivo ci si sente “indietro” o peggio ancora un “fallimento” se le persone con cui ci si paragona, raggiungono prima un obiettivo?
“Il bisogno di confrontarsi con gli altri è profondamente umano e affonda le proprie radici nello sviluppo dell’identità personale, che soprattutto durante l’adolescenza e la giovane età adulta si costruisce anche attraverso il paragone sociale“.
“Nella società attuale, questo confronto è amplificato dall’uso costante dei social media, dove ognuno può mostrare successi accademici, viaggi e relazioni perfette. Tuttavia, il confronto avviene spesso con immagini idealizzate e non con la realtà, generando una percezione distorta di “normalità“.
“Quando la nostra autostima si fonda esclusivamente sul riconoscimento esterno o sul confronto con gli altri, diventiamo più vulnerabili all’ansia da prestazione e al senso di fallimento“.
“Il sentirsi “indietro” rispetto ai coetanei deriva da un’idea lineare e cronologica del successo promossa dalla società: laurearsi in tempo, trovare subito lavoro, costruire una famiglia. Tuttavia, la realtà ci dimostra che i percorsi di vita sono sempre più eterogenei e non esiste una sola “tabella di marcia” da seguire”.
Come possiamo ridurre lo stress causato dal non aver centrato un obiettivo? E come possiamo evitare di sentirci “indietro” rispetto ad una società che mette in costante paragone le persone, imponendo di “correre” perché “prima finisci meglio è”?
“Una delle cose più difficili da accettare è che i percorsi non siano sempre lineari e che non esista un unico modo “giusto” per raggiungere un traguardo. Viviamo in una società che enfatizza la rapidità e la prestazione, e lascia spesso passare il messaggio che “prima è meglio”. La crescita personale, tuttavia, richiede tempi diversi per ognuno di noi e non è detto che arrivare prima significhi arrivare meglio“.
“Per ridurre lo stress legato al mancato raggiungimento di un obiettivo, può essere utile cambiare prospettiva: anziché vedere il risultato mancato come una sconfitta, proviamo a considerarlo come parte di un processo. Anche i momenti di rallentamento o di dubbio possono avere un valore formativo, se accettati con consapevolezza”.
“Inoltre, possiamo chiederci: sto davvero inseguendo ciò che desidero o ciò che credo di dover desiderare? Riallacciarsi ai propri bisogni autentici e riconoscere i propri ritmi può aiutare a sentirsi meno in corsa contro il tempo e più in cammino verso qualcosa di significativo. In un mondo frenetico, a volte la vera forza sta nel fermarsi e ascoltarsi“.
Secondo la sua esperienza, sono in aumento o in diminuzione i casi di ragazzi che patiscono molto quest’ansia sociale?
“In base alla mia esperienza e ai dati recenti, si registra un aumento dei casi di disagio psicologico legato all’ansia da prestazione, al senso di inadeguatezza e al burnout universitario, soprattutto nel periodo successivo alla pandemia”.
“L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha segnalato un incremento significativo dei sintomi ansiosi e depressivi nei giovani adulti negli ultimi anni. Spesso, questi ragazzi arrivano in consultazione con una narrazione fortemente autocritica, quasi che l’unico modo per “valere” sia essere sempre produttivi, veloci e performanti”.
“L’università, i social media e, a volte, le aspettative familiari contribuiscono a creare un clima in cui l’errore non è contemplato. Dovremmo, invece, educare al valore del tempo soggettivo, del dubbio e della sperimentazione”.
Trattando invece il tema genitoriale, in quest’ultimi mesi su Netflix è spopolata la serie tv “Adolescence”. Questa serie mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto genitoriale con i figli, sottolineando quanto sia importante tenerli d’occhio ed essere presenti sin da bambini. Secondo la sua esperienza come possono i genitori captare segnali di disagio nei figli, quando questi non li esprimono chiaramente?
“Spesso il disagio emotivo nei bambini e negli adolescenti si manifesta attraverso segnali indiretti, come cambiamenti nel comportamento, nel sonno, nell’alimentazione, una maggiore irritabilità o isolamento sociale. Altri indicatori possono essere il calo del rendimento scolastico o l’abbandono di attività che in precedenza piacevano“.
“La chiave sta nell’osservazione empatica e nella costruzione di un clima relazionale basato sulla fiducia. I figli comunicano, anche quando non usano le parole: parlano attraverso i silenzi, i gesti, le resistenze”.
“È importante che i genitori siano presenti con uno sguardo non giudicante e che si pongano in modo da ascoltare in modo autentico, senza forzare la comunicazione, ma lasciando spazi e tempi per l’espressione”.
Infine quali strategie possono adottare le famiglie per costruire un dialogo sano e continuo con i figli, prevenendo così scelte sbagliate o vissuti di solitudine e fallimento?
“In primo luogo, è essenziale normalizzare le emozioni: è importante permettere ai figli di esprimere rabbia, tristezza e frustrazione senza essere giudicati”.
“Questo crea un’alleanza emotiva che sarà la base del dialogo futuro. Una buona pratica è quella dei rituali di comunicazione, ovvero momenti quotidiani in cui ci si confronta (una passeggiata, la cena insieme, una chiacchierata prima di dormire), senza l’urgenza di risolvere subito ma con il desiderio di ascoltare e capire”.
“Inoltre, le famiglie possono lavorare sui loro modelli educativi, evitando il perfezionismo e valorizzando lo sforzo più del risultato, e trasmettere l’idea che ogni persona ha il proprio ritmo di crescita. Anche la condivisione, ovviamente in modo filtrato e adeguato all’età, delle proprie difficoltà da parte dei genitori può aiutare i figli a sentirsi meno soli nelle loro insicurezze”.