Siamo connessi come non lo siamo mai stati. Ogni giorno passiamo ore davanti a uno schermo, tra notifiche, chat, commenti e like. I social network ci danno l’illusione di essere costantemente circondati, parte di una rete infinita di contatti.
Eppure, in questa apparente vicinanza, cresce sempre di più un sentimento silenzioso ma potente: la solitudine.
Un paradosso che riguarda milioni di persone, soprattutto i più giovani, che hanno fatto del mondo digitale il principale spazio di espressione, relazione e confronto.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto la solitudine come una delle nuove priorità globali per la salute pubblica, mettendo in evidenza il suo impatto sulla mente e sul corpo.
L’illusione dei social: l’intervista alla psicologa Valentina La Rosa
In modo da fare chiarezza sul fenomeno “illusione dei social” , è intervenuta ai microfoni di NewSicilia la Dott.ssa Valentina La Rosa: psicologa, psicoterapeuta, assegnista di ricerca e docente a contratto di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Catania.
- La tecnologia, che avrebbe dovuto abbattere ogni distanza, sembra aver creato un paradosso: essere “sempre connessi”, ma spesso più soli che mai.
Come si spiega questo apparente controsenso? E quali conseguenze sta generando nella nostra vita sociale e mentale?
“Il paradosso della connessione permanente nasce dal fatto che la quantità di interazioni digitali non corrisponde necessariamente alla qualità delle relazioni umane. I social media ci permettono di essere aggiornati in tempo reale sulle vite degli altri, ma spesso si tratta di connessioni superficiali, mediate da filtri, algoritmi e dinamiche di performance”.
“In psicologia, si parla di “illusione di intimità”: ci sentiamo vicini agli altri perché ne conosciamo dettagli quotidiani, ma questo non implica una reale condivisione emotiva o supporto reciproco”.
“Nel film Herdel 2013, ad esempio, viene rappresentata proprio questa dinamica: il protagonista si innamora della voce di un’intelligenza artificiale, sviluppando un legame apparentemente profondo ma, in fondo, privo di reciprocità umana. Si tratta senz’altro di un’estremizzazione narrativa che però mette in luce quanto il bisogno di connessione possa spingerci a sostituire il reale con il virtuale”.
“Le conseguenze di questo fenomeno sono sempre più evidenti: aumento dei sentimenti di solitudine, ansia sociale, dipendenza dall’approvazione esterna (attraverso like e commenti), ma anche una crescente difficoltà a tollerare il silenzio e l’assenza di stimoli“.
“Il nostro cervello, sollecitato continuamente, fatica a rimanere presente nel qui e ora, con la conseguente compromissione della nostra capacità di entrare in relazione profonda con l’altro, relazione che richiede tempo, ascolto ed empatia, tutte qualità che i social non necessariamente favoriscono“.
Secondo la sua esperienza, quali fasce d’età risultano più vulnerabili alla solitudine digitale? I giovani sono davvero i più colpiti, o anche gli adulti stanno vivendo un cambiamento nelle loro relazioni?
“I giovani, soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti, sono sicuramente più esposti a questi rischi poiché stanno attraversando una fase dello sviluppo in cui l’identità personale si costruisce anche attraverso il confronto con gli altri”.
“I social amplificano questa dinamica, generando pressioni legate all’immagine, al bisogno di visibilità e al timore di restare esclusi (la cosiddetta FoMO, Fear of Missing Out). Tutto ciò può portare a instaurare relazioni effimere e all’illusione che un numero elevato di follower equivalga a un vero supporto sociale“.
“Tuttavia, anche gli adulti non sono immuni. Le relazioni, sempre più mediate da schermi e app, stanno cambiando forma a ogni età. Come racconta il film distopico ma incredibilmente attuale The Circle (2017), la vita iperconnessa può trasformarsi in un’esistenza continuamente osservata, ma paradossalmente priva di reale intimità”.
“In particolare, molti adulti sperimentano la disgregazione delle reti di amicizie tradizionali, un calo della comunicazione profonda nei rapporti di coppia e una crescente dipendenza dalle interazioni digitali per sentirsi meno soli. La pandemia ha indubbiamente accelerato queste dinamiche, abituandoci a modalità relazionali “a distanza” che, se non bilanciate da esperienze reali, possono lasciare un vuoto emotivo significativo”.
Che consiglio darebbe ai più giovani per evitare che l’uso costante dei social si trasformi in una trappola di solitudine, e per riuscire a coltivare relazioni autentiche anche nell’era digitale?
“Ai più giovani, ma anche ai meno giovani, direi di non avere paura della noia e del silenzio. Sono momenti fondamentali per entrare in contatto con noi stessi e con i nostri bisogni autentici. I social possono essere strumenti potenti, ma non devono diventare il principale metro di misura del nostro valore o delle nostre relazioni”.
“È importante coltivare relazioni in cui poter essere davvero noi stessi, dove poter sbagliare, raccontarci, essere ascoltati. Cerchiamo dunque di creare spazi offline, anche brevi, per vivere il tempo con l’altro, guardarlo negli occhi, costruire un dialogo fatto di pause e presenza“.
“E se abbiamo l’impressione di “comunicare tanto ma ascoltare poco”, come accade nel mondo frenetico raccontato dal film Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot (2018), forse è arrivato il momento di rallentare e tornare a chiederci davvero: “come stai?”. Non per dovere, ma per desiderio di esserci. Di esserci davvero“.